Lavoro flessibile: i pregiudizi delle aziende penalizzano i lavoratori
L'ultima ricerca dell'Osservatorio Sda Bocconi parla chiaro: la forma più applicata resta il part time, ma chi lo sceglie fa meno carriera e guadagna meno
Riempirsi la bocca con la parola “flessibilità” è facile. Quando però si va a guardare nel concreto, si scopre che quando si parla di lavoro flessibile l’Italia è ancora al Pleistocene. Le forme più utilizzate restano il part time, i permessi e congedi e la flessibilità è circondata da un’alone di pregiudizi che si pagano in termini di carriera e di stipendio. E i Cocopro, le assunzioni a termine e le consulenze, l’ultima frontiera dei contratti che piacciono alla ministra Fornero? Utilizzati spesso alla vecchia maniera. E per questo spesso infruttuosi.
Sono queste le conclusioni qui è giunto lo studio a tema condotto da Adele Mapelli e Simona Cuomo, ricercatrici dell’Osservatorio sul Diversity management della Sda Bocconi di Milano. La ricerca è stata condotta su una base di 52 mila lavoratori distribuiti su due grandi aziende. Ne parliamo con le autrici.
Il tema è di scottante attualità, la flessibilità paga?
Paga. A patto di usarla bene. Purtroppo non è così. Attualmente la flessibilità viene vista in Italia come un problema e non come un’opportunità a causa di un’organizzazione del lavoro troppo rigida.
Ma come. Oggi si parla soltanto di CoCopro, consulenze, contratti a termine come ancora di salvezza….
Questi sono contratti, nuovi nella tipologia. Sono soltanto una parte delle flessibilità che si tende a irrigidire sempre in una forma di contratto. Non a a caso nel nostro paese l’unica forma di flessibilità utilizzata è ancora il part time (13,2 per cento del personale in gran parte donne ). Il resto sono congedi e permessi.
Perché accade?
Per pregiudizio: si scambia il presenzialismo per produttività, quando è vero l’esatto contrario. L’Italia è uno dei Paesi in cui si lavora di pi ù ma la produttività pro capite è inferiore ad esempio ai Paesi nordeuropei, dove invece la flessibilità è considerata e sviluppata su base spazio temporale..
Cioè?
Che senso ha lavorare di più se da casa o con orari insoliti, flessibili, personalizzati si rende di più? Purtroppo in Italia il lavoro è organizzato secondo schemi troppo rigidi e anzi, chi sceglie forme di lavoro flessibile viene penalizzato anche se persona di talento e produce moltissimo. Le statistiche sono molto chiare in proposito: quando i manager valutano i dipendenti, sono molti influenzati dalla presenza in azienda o meno. Insomma, siamo ancora fermi ai badge e ai tornelli quando in realtà la produttività si è profondamente modificata.
Non è miope?
Lo è. Eppure l’utilizzo di permessi o congedi va a pesare sulla valutazione in negativo (-3,1 per cento). E’ una reazione automatica, culturale. Ancora più evidente se andiamo ad analizzare gli scatti di livello contrattuale e gli aumenti di stipendio: l'88,3% dei lavoratori part-time non ha registrato alcun passaggio di livello contro il 72,7% dei full-time. La possibilità di fare carriera si riduce di sette volte e lo stesso discorso vale per aumenti salariali e bonus. L’overtime, anche se trascorso chiacchierando in azienda con i colleghi o alla macchinetti del caffè, premia. Ingiustamente.
Molte singole aziende però hanno contrattato con i propri dipendenti forme di lavoro flessibile. Vuole dire che sono più avanti dei legislatori?
Anche, ma non possiamo ragionare attorno alla riforma del lavoro. Abbiamo preferito concentrarsi sulle aziende e sulla produttività e non sui contratti e tra le imprese non mancano certo gli esempi cui ispirarsi.
Quali?
La Nestlé ad esempio ha appena avviato una sperimentazione di telelavoro. Siemens fornisce ai dipendenti una valigetta con pc e cellulare, così ognuno lavora dove vuole. Stessa cosa Microsoft, dove la flessibilità è un vanto. Nessuna di queste è un’azienda no profit: quindi, se hanno scelto questa politica aziendale è perché funziona e produce reddito. La flessibilità paga, non produce costi aggiuntivi (lo stipendio part time è assolutamente proporzionato alle ore lavorate). Richiede soltanto qualche sforzo nella riorganizzazione del lavoro.
Al solito, non siamo pronti. La vostra proposta di cambiamento?
Eliminare i preconcetti e le rigidità richiede innanzitutto un grande lavoro culturale, che si può far partire ad esempio “ammorbidendo” e flessibilizzando lo stesso contratto part time. A volte infatti è più utile assecondare un buon lavoratore e permettergli di lavorare 4 ore un giorno e sei ore il giorno dopo, in modo che riesca anche a gstire con soddisfazione la propria vita e vivere il lavoro con entusiasmo e maggiore produttività.
Da dove o da chi deve cominciare questa rivoluzione culturale?
Dal top management, dai responsabili delle Risorse Umane, dagli amministratore delegati. E il resto verrà da sé.
L’ultima riforma del lavoro può essere uno spunto per cominciare?
I cocopro possono essere un bene a seconda di come vengono utilizzati. La stessa cosa vale per l’articolo 18. Dipende da chi lo gestisce e da in che mani finisce.