La nuova età d'oro dell'oro. Ma manca la forza lavoro
Industria

La nuova età d'oro dell'oro. Ma manca la forza lavoro

Fatturato da record per un settore dove siamo nazione all'avanguardia per lo stile e non solo. Ma un imprenditore ci racconta anche le difficoltà, soprattutto legate al personale

L’industria orafa sembra vivere un nuovo Rinascimento: è record di export (nel 2022 ha sfiorato i 9 miliardi, 1 miliardo in più rispetto all’anno precedente), il made in Italy perfeziona il suo posizionamento e affina il suo valore; eppure, siamo nel pieno della più grande crisi di forza lavoro mai vissuta. In atto una lenta rivoluzione, perché pare che l’Italia sia il paese dove, oggi, “conviene” produrre. Parliamo soprattutto del comparto del lusso, siamo a Valenza, un piccolo comune di poco più di 18.000 anime, che da oltre due secoli è tra le capitali mondiali della gioielleria. Lì è dove tutto prende forma.

Alessandro Pallavidini, gioielliere valenzano, mente creativa di un brand di gioielleria del lusso che nasce a Valenza nel 2003 ma che muove i primi passi nel ‘57, quando il padre Dario, fonda la Guerci Pallavidini, è tra coloro che lanciano un grido d’allarme.

«Tutto vero: non si trovano ragazzi che vogliano lavorare l’oro. I giovani sono andati all’estero e le fabbriche si sono spopolate. C’è una fondazione a Valenza che si chiama “Mani intelligenti” che sta cercando di formare le nuove generazioni, in più hanno aperto scuole e accademie nelle varie aziende come la nostra, per invogliare i giovani a restare qui e a proseguire il culto dell’arte orafa. In tanti settori hanno dato degli incentivi, come quello alimentare, noi pensiamo di essere stati un po’ accantonati. Quando gli anziani, i più esperti, quelli che conoscono tutte le lavorazioni andranno in pensione, se nessuno prenderà il loro posto avremo finito per sempre di fare quello che facciamo e una parte delle nostre tradizioni moriranno».

Quali sono le figure professionali più difficili da trovare?

«In questo momento mancano gli incassatori, sono richiestissimi e pagatissimi. Arrivano a guadagnare dai 5.000 ai 10.000 euro al mese. Se vieni qui, nei bar, ovunque, su Facebook, sui giornali, troverai gli annunci: CERCASI INCASSATORI. Ne servirebbero almeno un centinaio. Un’altra figura molto richiesta è l’orefice».

Cosa fa l’orefice?

«Assembla le componenti di un gioiello. Il primo step sono le cere, si chiama “Sistema a cera persa del Benvenuto Cellini”. L’orefice dopo un processo in cui la cera lascia posto all’oro, deve levigare, saldare e fare tutta una serie di lavorazioni a mano. La pulitrice è la figura specializzata che ripulisce i metalli da tutte le imperfezioni. L’incassatore, finita la montatura, fissa le pietre sugli oggetti. Queste le 3 principali figure».

Si torna a produrre in Italia.

«In questi ultimi anni, dopo il Covid, tutti i grandi marchi che andavano a produrre in Oriente, in Cina, stanno tornando sui loro passi e tornano a produrre a Valenza. Bulgari ha aperto uno stabilimento di 700 dipendenti, il più grosso d’Europa, presto arriverà a 1.400 operatori del settore. Una piccola città, nella città. Quasi tutti quelli che nascono qui, in famiglia hanno almeno una persona che fa l’oro, come a Murano fanno il vetro. In Italia siamo il primo polo di produzione di gioielli, poi c’è Vicenza e Arezzo che fanno rispettivamente oreficeria e merce fatta a peso. Ultimamente i francesi sono arrivati a Valenza e hanno fatto importanti investimenti: hanno comprano aziende, rilevano laboratori. Questo da una parte è buono perché creano occupazione, ma dall’altra no perché tanti piccoli laboratori sono assorbiti da grossi gruppi».

Come andrebbero formati i giovani? Come funzionava un tempo? Cosa è cambiato?

«Purtroppo, sono cambiati i gusti delle persone: una volta il nostro era considerato un mestiere affascinante, adesso si sono persi quegli antichi valori. Proprio i giovani, in Italia, indossano pochi gioielli, preferiscono comprare lo smartphone, fare un viaggio, andare al centro benessere, o in un ristorante stellato con gli amici. Il gioiello è l’ultimo dei desideri, ed è un peccato perché ha una simbologia forte. I faraoni, come anche gli antichi etruschi si facevano seppellire con i loro gioielli. Il problema attuale è la mancanza d’amore verso il prodotto e per tornare alla sua domanda, per formare le nuove generazioni servono incentivi. Valenza come area geografica è vicina a Milano, Torino e Genova, una posizione strategica ma qui ci sono solo fabbriche. Niente servizi, i collegamenti sono precari e così i ragazzi preferiscono andare a Londra a fare i camerieri».

Cresce la domanda dei preziosi Made in Italy e la mano d’opera italiana torna a far gola. Perché?

«A Valenza si lavora sabato e domenica e la sera fino a tardi, questo perché le grandi aziende stanno tornando. I cinesi hanno aumentato il costo della mano d’opera, in Italia abbiamo stipendi bassi, la manodopera è appetibile, ecco perché i gruppi del lusso scelgono noi. Dove vendono? In Oriente e nelle economie emergenti: Cina, Singapore, Taiwan, Malesia, Giappone. Una volta eravamo noi i grandi consumatori di gioielli, oggi ci stiamo trasformando in produttori. Un altro mercato importante è la Russia, anche se al momento per via del conflitto è tutto bloccato».

Figlio d’arte. Dove inizia tutto?

«Siamo una tra le più antiche aziende orafe di Valenza, non abbiamo mai cambiato sede o ragione sociale. Siamo nati producendo montature di alta gamma per solitari. Sul mercato siamo conosciuti per questa specializzazione. Mio papà, che oggi ha 83 anni, ha disegnato quasi 800 modelli e continua ancora a disegnare. A 14 anni ero già in fabbrica, provavo a imparare l’arte, anche solo stando al banco a fondere metalli. Sono partito da lì, prima di passare in rassegna ogni singolo reparto dell’azienda. Mio padre mi ripeteva sempre che per vendere gioielli avrei dovuto capire come nascevano».

Parliamo di arte.

«È il nostro claim in azienda. Lo ripetiamo spesso: “State comprando arte non oggetti in serie, prodotti da una macchina a livello industriale”. Nel 2003 è nato un mio marchio. Lo abbiamo presentato alle fiere di settore con un discreto successo fin quando non abbiamo aperto dei mono marca. Il primo a Courmayeur, poi Sardegna, Ischia, Milano e Saint- Tropez. Abbiamo sempre provato a distinguerci, puntando sull’artigianalità di Valenza riconosciuta ovunque».

La produzione dove avviene?

«Le idee partono da noi e i gioielli sono prodotti in azienda, e in un vicino laboratorio, esterno, dove maestri orafi producono in esclusiva per noi. Nell’immaginario della gente a fare un gioiello è una sola persona, ma si sbagliano. Occorrono varie figure specializzate: il designer che è il creativo, l’orefice, la pulitrice, l’incassatore, la smaltatrice».


Alessandro Pallavidini

Nel territorio alessandrino ci sono delle esperienze manifatturiere di grandissima eccellenza che possono essere raccontate e vissute da un turista, grazie al lavoro anche di promozione degli enti turistici. Un modo per far tornare i giovani.

«Collaborare con gli enti del turismo è utile. Le Langhe sono un buon esempio, da noi non tutti amano far entrare i privati nelle aziende. Al momento siamo gli unici. C’erano 1.500 fabbriche a Valenza, ne sono rimaste la metà, anche se stanno aumentando in maniera verticale di dimensione. A livello aziendale abbiamo creato un percorso turistico, che vorremmo trasformare in Fondazione, si chiama “Amo la vita” che per noi vuol dire Arte Orafa, Monferrato, Langhe, Vino, Tartufo. In azienda è nato un museo con tutta la nostra storia, i disegni, il primo banco con cui papà ha iniziato a lavorare, una stanza per l’arte. Sono le origini dell’azienda, che puoi conoscere attraverso una visita guidata, alla quale abbiniamo degustazioni di vino e di tartufo, che aiutano a far scoprire il nostro territorio. Vorremmo guidare la gente alla scoperta di quel gusto tutto italiano che tanto famosi ci ha reso in tutto il mondo».

Chi è il vostro target di riferimento?

«Parliamo di un’età media che va dai 40 anni in su. Generalmente sono donne in carriera che si comprano un gioiello da sole. Donne indipendenti che hanno avuto successo nella vita e restano affascinate dal nostro prodotto. Un target alto spendente ovviamente, parliamo pur sempre di artigianato di lusso».

Quale percentuale della vostra produzione finisce all’estero e quali sono i vostri mercati di riferimento?

«Si è un po’ invertita la tendenza, il nostro mercato principale era la Russia, poi il nord Europa: Norvegia, Finlandia, Danimarca. Molto interessanti per noi sono anche gli Emirati Arabi dove il mercato è fiorente. Dall’Italia arriva il 30% del nostro fatturato e spesso però in questa percentuale ci sono tanti stranieri. Gli italiani spendono poco in gioielli, positivo è il mercato nel sud Italia: Puglia, Sicilia, Calabria e Campania. Hanno intatte certe tradizioni e feste comandate. A Milano comprano una borsa griffata: vince lo status symbol. Un diamante, l’oro sono un investimento. Prima del Covid l’oro costava 36 euro al grammo, ora siamo a 58 euro al grammo, una cosa mai successa prima. Nonostante nella storia il prezzo dell’oro è sempre aumentato. Non è certo un caso che lo chiamino bene rifugio!»

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Nadia Afragola