Giuseppe Conte
Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images
Economia

La crescita frena: i conti del governo Conte non tornano

Investimenti al palo e aumento previsto del deficit pubblico si sommano a una frenata della crescita italiana. In attesa della prossima legge di bilancio che deve essere presentata entro fine settembre e delle misure "populiste", per il premier i numeri non riservano buone sorprese

La crescita, la crescita, signora mia. Tutti la invocano. Ormai ad agosto inoltrato, la prima resa dei conti vera per l’attuale governo in materia di economia e finanza pubblica si approssima sempre di più, con la prossima legge di bilancio.

Coerenti all’idea che bisogna aspettare le scelte concrete che verranno fatte, prima di avanzare dubbi e critiche o proposte alternative, intanto però tre cose si possono affermare con chiarezza.

Tutti i segnali indicano una conferma da mesi dell’attenuazione della crescita in corso, in Italia e in Europa, ma fin qui sembrano ignorati. Resta altissima la forbice tra desiderata della Lega e Cinquestelle, e obiettivi di deficit e debito su cui siamo impegnati in Europa. Infine, ed è il peggio, sembra che in particolare una delle due forze di maggioranza persegua obiettivi che la crescita potenziale possono in concreto solo abbassarla ulteriormente, invece di sostenerla.

La crescita frena: dati e perché

Dall’inizio dell’anno la frenata della crescita in Europa e in Italia è collegata innanzitutto al vero motore dello sviluppo mondiale: cioè al rallentamento del commercio globale per effetto della guerra tariffaria ad ampio spettro portata dagli Usa di Donald Trump verso Cina e Ue, che coinvolge però anche Paesi leader di economie subcontinentali come Messico, Canada, Brasile, Sudafrica. A questo si aggiunge l’aumento a doppia cifra percentuale da inizio anno del prezzo del petrolio e di molte commodity, che colpisce in particolare i Paesi trasformatori e ad alta dipendenza energetica come l’Italia.

Nel secondo trimestre 2018 la prima stima del Pil da parte dell’Istat vede la crescita scendere a +0,2 per cento, dal +0,3 del primo trimestre. E il più dei fori internazionali ormai inizia a prevedere per l’Italia – al netto delle misure ignote della prossima legge di bilancio - una crescita dell’economia per il 2019-2020 tra lo 0,9 e l’1 per cento o poco più. Rallenta ulteriormente per l’Italia la possibilità di azzerare il persistente elevato gap sul 2008 della produzione industriale e dei redditi medi pro capite.
Anche il ritmo di nuovi occupati aggiuntivi cala sempre più in Italia, e l’assorbimento si determina soprattutto nei settori dei servizi di mercato a più bassa produttività: che i loro occupati crescano in presenza di un minor contributo al valore aggiunto sul Pil significa che la produttività italiana multifattoriale complessiva si abbassa ulteriormente. Non c’è traccia alcuna di queste componenti strutturali che tornano a frenare potentemente la domanda estera e interna del nostro Paese, nel dibattito sin qui in corso sulle scelte fondamentali da fare per l’economia del nostro Paese.

Il macigno del debito pubblico e la linea di Tria

Sulla finanza pubblica, la frenata dell’economia reale somma i suoi effetti all’aumento dei tassi e del costo del debito pubblico che, da maggio in avanti è diventata l’effetto ormai strutturale delle dichiarazioni avventate fatte da esponenti del governo in materia di saldi pubblici e tenuta dell’euro.

Il deficit 2018 è atteso in crescita dall’1,6 per cento programmatico verso l’1,9, e quello ridotto a 0,8 per cento del Pil per il 2019 promesso dal governo Gentiloni si collocherebbe automaticamente invece verso l’1,3 per cento. Il ministro Tria è impegnato in una diuturna lotta ripetendo che l’Italia non può essere irresponsabile, ma Lega e Cinquestelle dichiarano di puntare a sfiorare il 3 per cento di deficit nel 2019. Anzi, verosimilmente a superarlo. Contando sul fatto che la Commissione europea, avvicinandosi le elezioni-terremoto europee della prossima primavera, non bastonerà l’Italia.

Può essere. Ma resta il fatto che le spese obbligatorie da coprire per la prossima legge di bilancio già oggi sono almeno pari a 18-20 miliardi di euro, tra i 12,4 miliardi di aumenti automatici di Iva e accise da azzerare, e spese obbligatorie irrinunciabili.

Nel vertice della prima settimana di agosto sono emerse tre novità. La prima è che Tria tiene duro sul minor deficit aggiuntivo rispetto agli obiettivi previsti, ma è solo (sia pur insieme al Quirinale). La seconda è che Lega e Pentastellati non neutralizzerebbero affatto i 12,4 miliardi di aumenti di imposte indirette, ma pensano di far scattare aumenti per almeno 8 miliardi, riarticolando al ribasso aliquote «sociali» per consumi delle famiglie: ma sempre cospicuo aumento di entrate sarebbe.
La terza è che a parte l’estensione per partite Iva e professionisti dell’attuale regime agevolato al 15 per cento - per almeno un paio di miliardi di minor gettito, alzando la franchigia - su flat tax, reddito di cittadinanza e pensioni Lega e Cinquestelle sono ancora lontani da proposte «scaglionate» nel tempo che non siano «scassadeficit». Ma se a settembre dovesse profilarsi un pacchetto di misure tali da creare un 4-5 per cento di deficit, il problema non è l’Europa: lo spread esploderebbe e il downgrading del debito pubblico italiano sarebbe questione di settimane.

L'effetto negativo delle nuove misure e dei "no" grillini

Vedremo tutto nel prossimo aggiornamento del Def, previsto da calendario entro il 27 settembre. Ma c’è un ulteriore «però», grande come un grattacielo. Ed è l’effetto concreto delle misure che hanno intanto preso concretezza nelle ultime settimane. Su ciascuna delle quali Lega e Cinquestelle la pensano diversamente. Ma su cui, stante la scelta di Salvini di lasciare ai Pentastellati Mise, Infrastrutture e Lavoro, l’effetto reale potrebbe essere di segno esattamente opposto a quel sostegno alla crescita e agli investimenti di cui i Cinquestelle parlano incessantemente.

L’antipasto è venuto con la stretta alla reiterabilità e con l’aggravio di costo dei contratti a tempo, il Decreto dignità di Di Maio: non c’è associazione imprenditoriale che non lo abbia considerato un freno alla crescita e all’occupabilità. Ma si è aggiunta tutta la lista di «no» pentastellati: Ilva, Tav, Tap, Terzo valico. Il conto l’ha fatto il 28 luglio scorso Il Sole 24 ore. Sommando penali e rischi d’impugnative, azioni risarcitorie e maggiori ammortizzatori sociali, azzerati incassi di cessione e aggravi alla bilancia energetica, l’ordine di grandezza dell’impatto di questi «no» sommati è nell’ordine pluriennale di 60 miliardi di euro, tra il 3,6 e il 3,8 per cento del Pil in fumo.

A questo si aggiungerebbe l’effetto negativo sull’attrattività di capitali esteri, visto che stracceremmo trattati e convenzioni sottoscritte dall’Italia con la Francia, la gara internazionale per Ilva, gli impegni con l’Azerbajan e tutti i Paesi percorsi dal gasdotto transadriatico, la gara internazionale per Alitalia. E via continuando.

Se si sommano le incertezze sui maxi investimenti che erano annunciati da Fs e Anas, il punto interrogativo sulla partita della rete a banda ultralarga tra rete Tim e quella di Open fiber di Enel e Cdp l’orizzonte generale disegnato sin qui dai Cinquestelle soffre di un’insanabile contraddizione. Da una parte predicano di investimenti pubblici a moltiplicatore addirittura stellare. Ma dall’altra sin qui sembrano solo abbattere per punti di Pil gli investimenti che intanto erano già predisposti. Una decrescita in radice, altro che felice...


Articolo pubblicato sul n° 35 di Panorama in edicola dal 16 agosto 2018 con il titolo "I conti di Conte (che non tornano)"


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Oscar Giannino