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Economia

Alphabet, così Google fa affari d’oro

Modelli consolidati come la pubblicità e YouTube trainano l'azienda. Lasciandole capitali e ossigeno per costruire il suo futuro

«La cosa più importante è il core business». La regola aurea degli affari, ricordata in queste ore anche dal New York Times, è l’architrave su cui poggia il successo (fino a un certo punto) clamoroso di Alphabet, la holding che nella sua capiente pancia contiene oggi Google accanto alle sue sorelle minori, sperimentali, in cerca d’identità e profitti.

Già: sarebbe un imbarazzante peccato d’ingenuità, un approccio parecchio naïve, ritenere che il propellente del sorpasso ai danni di Apple, per quattro anni regina incontrastata per capitalizzazione a Wall Street e oggi seconda protagonista incalzata pure da Facebook, ci sia la spinta motrice dell’innovazione, il fuoco sacro del progresso, la capacità di spiazzare il mercato con annunci imprevisti ed effetti speciali imprevedibili.

Ecco. È l’esatto opposto. I muscoli ipertrofici del colosso della Silicon Valley sono il frutto di un allenamento lungo anni, l’eterno refrain di una solida ricetta di successo. Un conservatorismo sensato, reazionario, autoreferenziale. Come scrive il Guardian, nulla è più appetitoso dell’advertising sul motore di ricerca. Niente fa più gola agli inserzionisti, siano essi multinazionali con bilanci gonfissimi o negozianti squattrinati.

Alphabet-Google-2Biciclette nel campus di Google in Silicon ValleyiStock. by Getty Images

Di mezzo, d’altronde, non ci sono supposizioni, illazioni, presunzioni d’onniscienza su ciò che ci potrebbe piacere: siamo nudi, giochiamo a carte scoperte, digitiamo ciò che ci serve nella barra della home page di Google o di Chrome, otteniamo risultati sponsorizzati e non. I primi, per quanto prezzolati, saranno per forza rilevanti. Senza alcun margine per il dubbio, senza possibilità di smentita.

Ricorreranno e ricompariranno altrove, in migliaia di siti fratelli, grazie ai cookie: i custodi di bit dei nostri desideri, la nostra memoria parcellizzata in tanti rivoli digitali depositati in un angolo remoto del computer.

In questo Big G, che rimane il molosso di Alphabet, la sua gallina dalle uova d’oro, salta persino i filtri ermeneutici di Facebook, che sussume i nostri gusti dai «like» piazzati qui e lì tra un post e l’altro nella piattaforma. Vende parole, chiavi di ricerca. Fatti, viene da dire, non opinioni. A prezzi crescenti in base al loro pregio, alla loro appetibilità, come un immobile di lusso soleggiato in pieno centro, incassando dall’advertising 13 dei 23 miliardi di profitti per il 2015.

L’intuizione degli inizi di Larry Page e Sergey Brin, la loro radice primigenia, ha fatto germogliare una quercia che sprizza salute. Così come YouTube, comprata nell’ottobre del 2006 per 1,65 miliardi di dollari, oggi in grado di catturare miliardi di visualizzazioni al giorno e, secondo stime per difetto di alcuni analisti, di produrre revenue annuali tra i 4 e gli 8 miliardi di dollari. Significa che, anche con la prudenza più estrema, ogni dodici mesi ripaga oltre il doppio del suo valore iniziale.

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C’è poi da considerare tutta la galassia Android, le app e i contenuti a pagamento, con il loro carico di pubblicità nell’universo mobile. Ma c’è soprattutto da riconoscere e ribadire l’ovvio: da quando è nata Alphabet, non ha introdotto nulla di nuovo, di dirompente. Con una sola evidente eccezione: ha svelato quanto pesa la sua debolezza, quante ferite provocano i suoi salti nel vuoto.

L’auto che si guida da sola, i progetti segretissimi per connettere il mondo a internet, curarlo, rendere la casa intelligente (vedi l’acquisizione di Nest), sono costati 3,6 miliardi di dollari in un anno. È la prima volta che questa cifra esce fuori con certezza, scolpita nel bilancio, non ipotizzata a spanne dai soliti bene informati.

Avere dichiarato dove perde mettendolo in contrasto con quanto (tanto) guadagna, è stata la mossa geniale di Google

Non è una perdita secca, ma una scommessa sul futuro. Di fatto e di nome: in Alphabet, volutamente, c’è la parola bet. Quasi 4 miliardi di dollari sarebbero un’assicurazione sulla vita per qualunque compagnia interessata alla sua autoconservazione, un asset da tesorizzare: sono tuttavia un investimento accettabile per una realtà con una capitalizzazione siderale, superiore ai 540 miliardi di dollari. Che può permettersi il lusso di cestinare i Google Glass, una volta constatato il loro fallimento. O ragionare d’immortalità e longevità, nonostante faccia da intermediario a chi vende veleno per insetti o profumi di basso livello.

Avere sottratto i suoi punti interrogativi dalla nebulosa del dubbio, avere dichiarato dove perde mettendolo in contrasto con quanto (tanto) guadagna, è stata la mossa geniale di Google. Il classico esempio di una debolezza che si è rivelata uno straordinario, inattaccabile punto di forza. E che ha appena cominciato a produrre i suoi effetti.

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Marco Morello

Mi occupo di tecnologia, nuovi media, viaggi, società e tendenze con qualche incursione negli spettacoli, nello sport e nell'attualità per Panorama e Panorama.it. In passato ho collaborato con il Corriere della Sera, il Giornale, Affari&Finanza di Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Economy, Icon, Flair, First e Lettera43. Ho pubblicato due libri: Io ti fotto e Contro i notai.

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