Una vicenda di affetti sfibrati: l’elementare in un cappello
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Una vicenda di affetti sfibrati: l’elementare in un cappello

Nelle mezze ore che precedono le partenze dei treni (ché alcuni, tra cui chi scrive, si recano in stazione con un anticipo modulare di mezz’ora in mezz’ora a seconda della grandezza della stazione e dei chilometri da percorrere), può accadere …Leggi tutto

Nelle mezze ore che precedono le partenze dei treni (ché alcuni, tra cui chi scrive, si recano in stazione con un anticipo modulare di mezz’ora in mezz’ora a seconda della grandezza della stazione e dei chilometri da percorrere), può accadere di fare letture fondamentali e illuminanti.

In modo perfetto, senza frettolosa funzionalità, senza volontà di scavalcare il modulo a sé deputato, si è aperto sotto i miei occhi un capitolo dei racconti di Arthur Conan Doyle, Il carbonchio azzurro, che mi ha letteralmente catturata. La storia è facile: come di consueto, il Dottor Watson va da Sherlock Holmes e lo trova, pipa in bocca, in contemplazione di un cappello. Il quale cappello, come racconta il fattorino che l’ha rinvenuto, è volato dalla testa di un uomo la notte precedente (notte di Natale, notte difficile, inospitale ai solitari) insieme a un’oca, che peraltro sta cuocendo in forno proprio in quel momento. Sherlock stesso puntualizza: «La faccenda è perfettamente insignificante» (questo lo dice «facendo saltare col pollice il vecchio cappello»), «ma ci sono dei punti che la riguardano che non sono del tutto privi di interesse e perfino d’insegnamento».

Come è prevedibile (non c’è niente di più prevedibile di un giallo), si rintraccerà l’uomo e si risolverà il caso – uno di quei casi in cui le oche ingoiano gioielli rubati e gli uomini corrono nei vicoli di Londra in cappotti color pulce.

Laciamo stare la precisione distaccata, da antico e burbero uomo di lettere, con cui Conan Doyle descrive il mondo come lo vede Holmes («il carbonchio blu che brillava come una stella con una radiosità fredda, splendente e puntiforme»); mettiamo da parte l’irresistibile humor dell’arbitrio apodittico e lontanamente sbruffone di Holmes («Il mio nome è Sherlock Holmes. La mia professione è di sapere quel che le altre persone non sanno»), e delle sue risposte o meglio di ciò che le sue risposte non pronunciano; trascuriamo la cura maniacale che Conan Doyle dedica alla bellezza, nocciolo incontaminato eppure perverso in mezzo alle rozze vicende umane «(Naturalmente è il nucleo e il fuoco di un delitto. Lo è ogni bella pietra. Sono le belle lusinghe del diavolo. Nei gioielli più grandi e più antichi ogni sfaccettatura può rappresentare un atto sanguinoso»). Tanta carne nelle pietre si vedrà solo in Caillois e in Gadda.

Il passaggio fulminante è però a questo punto: Watson chiede quale sia il delitto, tra oche e cappelli: «No, no. Nessun delitto – replicò Sherlock Holmes, ridendo. – Soltanto uno di quei piccoli incidenti stravaganti che vi accadono quando avete quattro milioni di esseri umani che fanno a gomitate entro lo spazio di pochi chilometri quadrati. Fra l’azione e la reazione di un così fitto sciame di umanità, ci si può aspettare che abbia luogo qualsiasi combinazione di avvenimenti».

La metropoli chiama a sé errori e delitti, commessi più per negligenza, e per congenita incapacità di comunicare tra le parti, che per malignità. Ma gli oggetti inanimati, al riparo dallo sciamare umano, sanno tutto: ne sanno più di Sherlock, persino. È a loro che domandiamo grazia, sapere, potere, gloria, affetto.

Dell’oca, «incensurabile», non restano che piume, zampe e frattaglie («disjecta membra della mia ultima conoscenza»), mentre il resto emana un buonissimo odore. È nel cappello, nella sua elusività di accessorio, nel suo essere corpo di nessun delitto e insieme nodo di una rete di relazioni, commerci, affetti, convenzioni, maniere del tempo e rapporti sociali, che è contenuta una questione molto più grande, attorno a cui mi permetto di pensare che ruoti il racconto.

«Vi prego di osservarlo non come una logora bombetta, ma come un problema intellettuale», dice a proposito Holmes.

«Non riesco a vedere nulla», dice Watson, che in questo momento è noi. «Al contrario, Watson, avete veduto tutto», dice, con la sua semplicità di acquaragia, la voce di Sherlock.

E tutto è: quel cappello, seppure di buona fattura, è liso, forse comprato tre anni prima, cosa che fa pensare che il suo proprietario sia caduto in disgrazia; che sopra ci sono delle macchie di sego, il che può voler dire che non ha l’impianto a gas («probabilmente di sera sale le scale con il cappello in una mano e con una candela gocciolante nell’altra»); che, d’altro canto, ha tentato di nascondere alcune di queste macchie sul feltro tingendole con l’inchiostro, «segno che non ha totalmente perduto l’autorispetto»; che data la sua circonferenza la testa che ricopre è «di un considerevole volume cubico», quindi forse è «un intellettuale»; che la polvere che si posa sulle tese non è terra di strada, ma comune polvere domestica («è un sedentario»); ma, soprattutto, è anche uno che la moglie ha smesso di amare. Prego? Watson trasecola: «Mio caro Holmes!». Sherlock non vedeva l’ora di arrivare a questo punto: gigioneggia: «Mio caro Watson, quando vedrò che sul vostro cappello ci sarà un accumulo di polvere di una settimana, e quando vostra moglie vi permetterà di uscire in quello stato, dovrò temere che anche voi sarete stato abbastanza sfortunato da perdere l’affetto di vostra moglie».

Il presunto delitto implode in questo punto vertiginoso, dove gli “elementi” si coagulano: le trame tristi del disamore, la solitudine dell’uomo la notte di Natale, gli equivoci e il tracolli di una vita svuotata: sono tutti racconti affidati a un altro libro, a un altro autore: Conan Doyle ci mostra solo un cappello, tanto che quello che succede da questo punto in poi non fa nessuna differenza, e viene piegato, diciamo così, al dispiegamento del mistero.

È questo il motivo per cui il racconto è un giallo, un caso di umana solitudine e incomprensibilità, una vicenda di affetti sfibrati che inchioda alla sua elusiva perfezione: un uomo che non è più amato si lascia portare per le vie di una città piovosa, cade nel fango, viene imbrogliato e cerca di imbrogliare, si incarta su vicende di uova, piume e pollame, perde gioielli in ventri di oche, sale le scale al buio scottandosi le dita cercando di mantenere un’ombra di autorispetto, ma soprattutto, se dotato di un cappello, vedrà la polvere accumularsi su di esso: nessuno lo spazzolerà, e lui non avrà nessun motivo per farlo da sé.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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