”La prosa di Kipling era pomposa, quella di Stevenson infantile, quella di Joyce inintelligibile”. Storia di una felice prigionia
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”La prosa di Kipling era pomposa, quella di Stevenson infantile, quella di Joyce inintelligibile”. Storia di una felice prigionia

C’è un racconto di Sua Perfidia Evelyn Waugh in cui un uomo viene salvato da un altro nella Foresta Amazzonica e costretto da questo, in cambio, a leggere Dickens ad alta voce per il resto della vita. È più o …Leggi tutto

C’è un racconto di Sua Perfidia Evelyn Waugh in cui un uomo viene salvato da un altro nella Foresta Amazzonica e costretto da questo, in cambio, a leggere Dickens ad alta voce per il resto della vita.

È più o meno a quello che succede al protagonista di questa storia vera. Quando aveva 16 anni, siccome passava i suoi pomeriggi alla Pygmalion, una delle tre librerie anglo-tedesche di Buenos Aires, la proprietaria decide di assumerlo; il suo compito è ufficialmente quello spolverare i libri uno ad uno e di impararne la collocazione. Ma i libri gli piacciono un po’ più del dovuto: resta spesso imbambolato a annusarli e a toccarli, e qualcuno se lo porta a casa, nascondendolo sotto la giacca. Un giorno vede entrare un signore anziano accompagnato da una vecchia. Si tratta di uno scrittore famoso, pare, anche se lui non lo conosce e non ne ha ancora letto una riga. Benché sia quasi completamente cieco, il signore si rifiuta di usare il bastone: per questo va in giro sempre con la madre ottantottenne.

Anche lui si mette a toccare i libri, cosa che il ragazzino non saprà mai se imputare alla scarsa vista o a una mania che li accomunava. A un certo punto chiede un dizionario e una versione annotata della Battaglia di Maldon. La madre si spazientisce: «Oh, Georgie» dice al figlio che di anni ne ha 65 «non so perché sprechi il tuo tempo con l’anglosassone, invece di studiare qualcosa di utile come il latino o il greco!». Lo scrittore si volta verso il ragazzino e gli chiede altri libri, che lui gli procura in silenzio. Prima di andarsene, gli chiede se per caso quella sera stessa è occupato: ha bisogno, spiega con un po’ di imbarazzo, che qualcuno legga per lui, dato che sua madre ormai si stanca subito. Il ragazzino accetta.

Quella sera e per i due anni seguenti si reca a casa dello scrittore famoso, seguendo un rituale sempre identico: sale le scale fino al suo appartamento (le stesse scale che lo scrittore aveva salito un giorno sfogliando una copia appena acquistata delle Mille e una notte: non vide il battente di una finestra aperto e si fece una brutta ferita che si infettò fino a farlo delirare e a convincerlo che stava impazzendo); suona il campanello; gli apre una cameriera che lo conduce in un salottino dove poi lo scrittore lo raggiunge, «porgendogli una mano molle». «Non c’erano preliminari», racconta; «si sedeva impaziente sul divano mentre io prendevo posto in una poltrona e con voce leggermente asmatica suggeriva la lettura di quella sera. “Scegliamo Kipling? Eh?” E naturalmente non si aspettava davvero una risposta».

In quel salotto, «sotto un’incisione di Piranesi di rovine circolari romane», il ragazzino legge a alta voce per ore e ore «Stevenson, Henry James, molte voci dell’enciclopedia tedesca Brockhaus, versi del Marino, di Enrique Banchs, di Heine» («ma questi li sapeva a memoria, tanto che appena cominciavo a leggere la sua voce esitante proseguiva recitando; l’esitazione riguardava solo la cadenza, non le parole, che ricordava perfettamente»).

Non è facile: l’anziano scrittore è pieno di manie e idiosincrasie; a volte si inalbera per una frase, come per quella, che trova ridicola, delle Nuove notti arabe di Stevenson che recita “vestito e truccato in modo da rappresentare una persona legata con la Stampa in ristrettezze”: «Come può qualcuno vestirsi così, eh?Cosa credi che avesse in mente Stevenson?», si mette quasi a gridare.

Ha una specie di lista nera di versi brutti che lo fanno uscire dai gangheri, che include:

“Il gufo, con tutte le sue penne, non aveva freddo” di Keats, che trovava ridicola; “O mia anima profetica! Mio zio!” di Shakespeare: trovava “zio” una parola impoetica e inappropriata pronunciata da Amleto – avrebbe preferito “Il fratello di mio padre!” o “Il cognato di mia madre!”; “Noi non siamo altro che le palle da tennis delle stelle” dalla Duchessa di Amalfi di Webster; gli ultimi versi di Milton nel Paradiso riconquistato – “Egli tornò inosservato a casa, alla dimora privata di sua Madre” – che gli fanno pensare «a un Cristo simile a un gentiluomo inglese in bombetta che torna a casa dalla mamma per il tè». Lovecraft lo irrita al punto che il ragazzino è costretto a interrompere la lettura e ad aspettare che si calmi, poi riceve l’ordine di ricominciare da capo, il tutto «per una mezza dozzina di volte».

Il ragazzino torna a casa con le orecchie che gli ronzano delle parole dei libri e dei commenti del vecchio, delle sue battute crudeli e dei suoi sproloqui. Col passare del tempo, ha l’impressione che lo scrittore non scelga più i libri da fargli leggere per il suo proprio piacere – anche perché per la maggior parte li odia – ma seguendo un altro imperativo.

«Cominciai con l’accettare i suoi giudizi sui racconti che egli sceglieva per me – che la prosa di Kipling era pomposa, quella di Stevenson infantile, quella di Joyce inintelligibile – ma poi il pregiudizio lasciò il passo all’esperienza, e la scoperta di un racconto mi conduceva a un altro, che a sua volta veniva arricchito dal ricordo delle reazioni sue e mie».

Nel 1966, due anni dopo il loro primo incontro, il governo militare del generale Onganía mette al bando tutti i libri sospettati di comunismo o di oscenità: «alcuni titoli e alcuni autori finivano sulla lista nera della censura, e con i sempre più frequenti controlli della polizia nei caffè, nei bar e nelle stazioni, o anche semplicemente per le strade, non essere sorpresi con un libro proibito fra le mani era diventato importante come avere con sé i documenti. Gli autori banditi – Pablo Neruda, J.D. Salinger, Maksim Gor’kij, Harold Pinter – formavano un’altra, diversa storia della letteratura, i cui legami non erano né evidenti né eterni, e la cui comunanza si rivelava esclusivamente all’occhio acuto del censore». Lo scrittore gli aveva fornito gli strumenti per creare da sé i legami tra i libri, a dispetto di ogni potere che vuole spezzarli o mistificarli. Come per il salvatore del racconto di Waugh, la sua imposizione aveva che fare con la salvezza della vita.

Anni dopo, il ragazzino, che si chiama Alberto Manguel, racconterà gli anni di questa «felice prigionia» nel suo Una storia della lettura: «Ero il suo taccuino, un aide-mémoire di cui quel cieco aveva bisogno per radunare le sue idee, e mi lasciavo usare più che volentieri». Lo scrittore, salvatore e tiranno, era Jorge Luis Borges.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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