Case morbose: il tavolo di Melville e i mobili di Savinio nella triste illogicità del convivere
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Case morbose: il tavolo di Melville e i mobili di Savinio nella triste illogicità del convivere

Nel «vecchissimo solaio di una vecchissima casa in un antiquato quartiere di una delle più vecchie città d’America», il protagonista del racconto di Herman Melville Il tavolo del melo trova un «piccolo tavolo eremita», sporco e impolverato, e lo porta …Leggi tutto

Nel «vecchissimo solaio di una vecchissima casa in un antiquato quartiere di una delle più vecchie città d’America», il protagonista del racconto di Herman MelvilleIl tavolo del melo trova un «piccolo tavolo eremita», sporco e impolverato, e lo porta nel salotto di cedro, perché diventi «un comodo tavolino da colazione e da tè», e «per giocare a twist». Naturalmente in casa abitano i fantasmi: così al narratore ha fatto comodo credere al momento dell’acquisto, per tenere basso il prezzo. Solo che la famiglia composta da moglie e due figlie non ha una buona reazione davanti ai piedi caprini di quel mobile, da cui, da un giorno all’altro, per di più, si sente uscire uno strano ticchettio. Il «Tic» si fa ogni giorno più sinistro, e sembra aumentare con la paura generale, che a sua volta aumenta nell’«ansiosa attesa di suoni» virando verso l’insofferenza reciproca. Per uno strano meccanismo, quel mistero non unisce né disunisce il vincolo familiare, ma sembra riflettere l’assurdità del suo fondamento, quell’incantamento tra stabile ordinarietà e malferma illogicità del convivere di cui la casa è uno specchio e un contenitore.

«Che strana cosa la famiglia! Che casuale riunione di estranei!», scrive Alberto Savinio in Poltromamma, racconto sulla morbosità immedicabile che trasmettono pareti e tetti, usci, chiavi, tavoli, poltrone, finestre. «Quanto pesa, quanto è noiosa questa casa!».

E sempre Savinio alla forza dell’abitudine (dove forza in questo caso non è una bella parola) che la casa sprigiona e incoraggia dedica l’altro racconto diTutta la vita dal titolo Paterni mobili, dove Azio Bot, falso nome di Dazio Bottoni che ribattezzandosi aveva pensato di ribellarsi all’autorità familiare, «si convince di non poter vivere» senza tale Niuccia Vaso, e chiede la sua mano. Dopo la cerimonia, la porta a casa sua, dove per anni lui e suo padre – la madre è morta quando era piccolo – sono vissuti uniti dalla stessa tristezza; gli occhi di Niuccia si fermano «più insistenti e sprezzanti sulla poltrona a dondolo collocata in mezzo al salotto e adorna come una vecchia zia sul sedile e lo schienale di una trapuntina rosa legata all’incorniciamento di legno biondo con fiocchetti rossi, sul grande specchio ovale che putti d’oro circondavano reggendo grappoli opimi, e soprattutto sul ritratto del cavaliere Gaetano Bottoni, padre di Dazio». Il ritratto concentra la pena di tutta quella funebre dimora: «Niuccia disse che se avesse dovuto vedere tutti i giorni l’immagine del suo defunto suocero, il terzo giorno sarebbe dovuta entrare in una clinica per malattie nervose».

Dazio e Niuccia passano perciò la prima notte del loro matrimonio nella camera n. 29 dell’Albergo degli Ambasciatori, mentre «una squadra di arredatori guidata da un architetto modernista sgombrò la casa dei suoi vecchi mobili che mandò in cantina, raschiò gli stucchi dalle pareti e dai soffitti, passò sui muri una uniforme tinta bianca e al posto dei vecchi mobili mise quegli scheletri di vetro e di metallo».

La moderna vita urbana, fondata sulla indissolubilità di acciaio Inox del matrimonio, sembra farsi spazio in quel lugubre museo di paternità coatte. Ma «Dazio si separò da Niuccia in capo a due mesi di umiliazioni e dopo aver intestato a sua moglie una parte cospicua del suo patrimonio». Niuccia, a sua volta, torna a casa sua, con madre e sorella: «Scomposta per un periodo di sessanta giorni, la triade tornò a ricomporsi in casa Vaso alla fine di detto periodo, e Niuccia riprese alla sinistra di sua madre il suo posto di santa maschera. Tra madre e figlie, natura ha stretto la complicità più pericolosa».

«E ora dove vado?» si domanda Dazio quando si ritrova solo in casa. «Aveva disposto che l’indomani i mobili paterni tirati su dalla cantina ritornassero ai loro posti consacrati dal tempo e dai ricordi». Ha una «ispirazione di carattere masochista: ritornare lui solo per una notte all’Albergo degli Ambasciatori, e riprendere la camera 29: «Il 29 era occupato ma la camera 30 era libera. La sera, mentre traversava il corridoio, Dazio vide davanti al 29 un paio di scarpette femminili affiancate a un paio di stivaloni speronati e simili alle zampe di un gallo da combattimento, come a riceverne protezione. Dazio passò la notte presso la porta di comunicazione tra le due camere, cercando di origliare, di cogliere una parola, una voce, un sospiro e assaporando le amare voluttà dell’eautontimorùmenos». I fantasmi del poter essere si presentano, placidi perciò inquietanti, al suo sguardo, nel domicilio instabile dell’albergo.

Fatto sta che quando torna a casa nel pomeriggio tardo, «i mobili paterni erano ritornati ai loro posti. Dazio ritrovò, come una calda protezione, l’aura nella quale era trascorsa la sua infanzia, la sua adolescenza, la sua giovinezza. Ritrovò il colore della sua tristezza, l’odore della sua solitudine, il sapore della sua infelicità. Quando l’infelicità arriva a una perfezione tale, l’infelicità diventa una forma di felicità: la più gelosa anzi, la più squisita. Cercar di rompere una siffatta forma d’infelicità, è un tradire la felicità, un tradire se stessi. Bisogna conoscersi, capire profondamente quello che si addice a ciascuno di noi. «A me si addice questa preziosa, questa calda, questa chiusa infelicità: fuori di essa tutto è freddo e tutto è buio».

Finale disperato a cui pare riparare quello invece clemente di Melville: all’origine del ticchettio la famiglia scopre – in una pulitissima atmosfera dominata dal logos e dalla scienza spegnitrice di superstizioni e nevrosi – un piccolo insetto che «dopo centocinquant’anni di sepoltura» aveva «visto la luce risorgendo in un buco nel legno», casa sua; e libera dai fantasmi riprende a fare colazione insieme.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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