Parlare di fascismo senza essere linciati
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Parlare di fascismo senza essere linciati

In principio fu Berlusconi. Ma oggi anche i grillini "salvano" il regime. Che non produsse solo violenza

di Giordano Bruno Guerri

Come se non avessero e non provocassero ben altri problemi, i grillini si chiedono se il fascismo abbia avuto anche qualche aspetto o periodo buono.
E tutti, come se non avessimo altri problemi, giù a dare loro mazzate, sia pure virtuali: non sanno, gli ignorantelli, che il fascismo fu un "male assoluto", come ebbe a dire Gianfranco Fini in una delle sue conversioni?

Addirittura, fino a tutti gli anni Settanta, «fascista!» era l’offesa più di moda e più violenta: tutto ciò che di male esisteva nell’universo era fascista, dall’imperialismo americano alla polizia. Persino le prevaricazioni amorose e i comportamenti automobilistici finivano per provocare la temuta definizione, inappellabile e fatale. Ma ancora oggi insinuare il sospetto di indulgenza verso il fascismo è un’arma letale.

E a questo punto devo autocitarmi, per una volta senza autocompiacimento bensì con la malinconia di essere io stesso (così giovane) un pezzo di storia. Era il 1976 quando la Feltrinelli pubblicò la mia tesi di laurea, che si chiamava, con tedio universitario, La figura e l’opera di Giuseppe Bottai. Il titolo che proposi all’editore era invece Giuseppe Bottai, fascista: volevo rimarcare che un uomo colto, un politico onesto, un gerarca capace come Bottai era, appunto, un fascista. A quei tempi dirigeva la Feltrinelli un altro uomo colto, onesto, capace, Giampiero Brega, che ebbe il coraggio di pubblicare quel libro nel bel mezzo di quella temperie culturale e proprio mentre la casa editrice rappresentava l’estrema sinistra dell’editoria italiana. Il volume, infatti, arrivava alle conclusioni che 1) era esistita anche una classe dirigente fascista di buona qualità; 2) che durante il regime era possibile fare cultura; 3) che era esistita una cultura fascista.

Sembrano cose banali, oggi, 37 anni dopo, ma allora erano affermazioni tali da far aprire le cateratte dell’antifascismo sacrale. Così Brega suggerì garbatamente di aggiungere al titolo un aggettivo che ne avrebbe attenuato la portata, "critico": dichiarando Bottai fascista, sì, ma critico del fascismo, come in effetti era stato, tutto sarebbe apparso più sfumato.

Era l’epoca in cui Renzo De Felice veniva cucinato a fuoco vivo e lento per il suo saggio sul consenso, ovvero su quanto gli italiani fossero stati fascisti. Nessuno riusciva a contestare seriamente le sue tesi, perché non si poteva, e però fioccavano sospetti e allusioni sulla sua onestà intellettuale, sulle sue capacità storiografiche, soprattutto sulle sue tendenze politiche.

Lo stesso accadde a me, spaurito ma rissoso ragazzotto, sospettato di nefandezze nostalgiche proprio perché non si potevano negare le mie tesi. Da allora mi porto dietro una vaga e ridicola fama di «fascista», iniqua nel doppio significato di ingiusta e di infame. A niente è valso che poi abbia pubblicato altri libri, niente affatto assimilabili a nostalgie fascistiche, visto che vi si criticano valori come la storia patria e la Chiesa; a niente è valso che, direttore dell’Indipendente, il mio primo titolo, a piena pagina, fosse «Più individuo, meno Stato»; a niente è servito che abbia sempre proclamato il dovere di declinare intera la parola libertà: liberale, liberista, libertario e, se possibile, libertino. A niente è servito che le tesi di De Felice e le mie siano ormai accettate anche dalle associazioni di partigiani, o che Francesco Rutelli, quand’era di sinistra e sindaco di Roma, volesse intitolare una via a Bottai. Servirà a qualcosa che in questi giorni, celebrando il 150° anniversario di Gabriele D’Annunzio, io sia riuscito ad affermare la tesi che il Vate non era e non fu mai fascista? Vedremo.

Per ora qualche soddisfazione me la sono presa. Una dozzina di anni fa, ripubblicando la mia tesi di laurea, le ho dato il titolo che volevo sin dall’inizio, Giuseppe Bottai, fascista; e un paio di anni fa, ripubblicandola ancora, ho tolto pure l’aggettivo, ormai diventato deviante per un giudizio sul personaggio.

Il problema culturale del Paese, però, resta. Lo dimostra il fatto che chiunque accenni a dire qualcosa di buono del regime, delle sue realizzazioni, delle sue opere, viene bollato come un paria. Il problema è che, invece di fare i conti con la propria storia e con il proprio essere stato fascista, la maggior parte del popolo italiano abbia vissuto un vuoto culturale che gli ha impedito di conoscere e riconoscere il proprio passato, e dunque di liberarsene. Se colmare questo vuoto fa parte della rivoluzione grillina, è un punto a loro favore.

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