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Ansa
Calcio

La logica folle di chi è contro il calcio che prova a fare soldi come con la Supercoppa

Polemiche per la trasferta in Arabia, per il decreto crescita, per i diritti tv per non parlare dei freni ai nuovi stadi. In Italia politica ed opinione pubblica ce l'hanno con il pallone e vorrebbero dei presidenti che spendano, e basta

Maurizio Sarri l'ha definita una cosa "prendi i soldi e scappa". Non sport. Una sorta di tuffo nel caveau arabo per lucrare al massimo un evento tutto sommato periferico per il calcio italiano, spartirsi il bottino e tornare a casa. In tanti la pensano come lui tra gli addetti ai lavori, soprattutto quelli stipendiati anche se il proprietario e presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, sulla Supercoppa Italiana nel mezzo del deserto non era stato tenero. Strano, perché pure lui quell'accordo da quasi 100 milioni di euro in quattro stagioni l'ha votato, senza che nessuno fiatasse, quando si è trattato di decidere in Lega Serie A cosa fare del torneo da qui al 2026.

Siccome "pecunia non olet", De Laurentiis e colleghi hanno spedito con entusiasmo tutto in Arabia Saudita per la bella cifra di 23 milioni all'anno, copiando la formula spagnola della final four così da massimizzare i guadagni. Poi gli altri si sono accorti di scomodità logistica, compressione del calendario, interferenza con le varie volate del campionato (non solo lo scudetto) e pure delle questioni etiche e politiche che non mancano, anzi, ma già non hanno fermato la Fifa che dopo Qatar 2022 ha varato Arabia Saudita 2034 e nemmeno gli altri che con gli sceicchi fanno affari.

Tutti i pareri sono rispettabili, ci mancherebbe. E sulla svendita del pallone e dello sport in generale ai signori del deserto si potrebbe aprire un capitolo molto lungo, posto che con gli arabi il Vecchio Continente ha intrecciato rapporti commerciali e industriali che fanno impallidire quelli del calcio, senza per questo arrossire.

Restando alla scelta di incassare tanti soldi per mandare la Supercoppa Italiana a Riad, però, una riflessione si può fare ed è questa: è singolare che si accusino i padroni dei club di gettare via denaro e indebitarsi per andare avanti (cosa spesso vera), ma al tempo stesso non si accetti che facciano quello che ogni imprenditore dovrebbe fare e cioè aumentare i ricavi e aprirsi nuove possibilità.

In rapida sequenza. Vendere i diritti tv fa schifo perché poi le televisioni vogliono lo spezzatino (ma va?!?) e quanto era bello il calcio di una volta con tutte le partite in contemporanea e la radiolina accesa. I biglietti delle partite costano troppo, come se andare a vedere un concerto o uno spettacolo teatrale fosse gratis. Gli stadi sono vecchi e scomodi ma guai a pensare di farne di nuovi, pagati dai privati: no alla speculazione edilizia, piuttosto che i centri commerciali - a decine - li facciano i soliti noti.

Il Decreto Crescita? Immorale. Via. Sia mai che l'industria del calcio sia come tutte le altre che quotidianamente si battono per ottenere facilitazioni fiscali. Aiuti diretti? Vade retro, non ai ricconi del pallone. Che poi tanto ricchi non sono, visto che perdono centinaia di milioni di euro tutti gli anni e li mettono quasi sempre di tasca loro. Ma questo agli altri (stipendiati compresi) non interessa, tanto paga lo scemo di turno. Lo stesso cui chiedere di comprare l'attaccante ultima moda, il difensore che non puoi proprio farne a meno e nei ritagli di tempo regalare biglietti a vip e politici di turno. Categorie, queste, abituate a fare "presa" piuttosto che "impresa" sul portafoglio, in pelle, altrui.

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Giovanni Capuano