Mohammad bin Salman
Ansa
Politica

A che gioco sta giocando Mohammad bin Salman

Mohammad bin Salman sembra voler cambiare «schieramento». Il principe saudita si avvicina alla Cina e al suo club economico anti-Usa, parla con gli acerrimi nemici dell’Iran, flirta con la Siria di Assad, alza il prezzo del greggio... Tutte mosse in chiave anti-Usa. Almeno in apparenza.


Mohammad bin Salman, imprevedibile principe ereditario dell’Arabia Saudita, ne ha combinata un’altra. Uscito fin troppo bene da quella sorta di limbo nel quale era stato confinato dopo la morte del giornalista Jamal Khashoggi (scomparso all’interno del consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018 e verosimilmente assassinato da uomini vicini al principe), adesso pare intenzionato a farsi nuovi «amici». Che si chiamano Cina, Iran, Russia e Israele. Intendiamoci, le paventate amicizie saudite non hanno niente di politico: sono strumentali a sostenere l’economia nazionale e proiettare il regno nei tempi moderni, dove l’oro nero presto non sarà più garanzia di risorse illimitate e non potrà garantire gli investimenti faraonici delle nuove città avveniristiche che Bin Salman sognava sin da piccolo.

Per questo, il principe - che negli anni Trenta del nuovo secolo potrà festeggiare il centenario della nascita dell’Arabia Saudita in qualità di re (l’attuale monarca Salman bin Abdulaziz Al Saud, infatti, è del 1935) - ha iniziato a riconsiderare le alleanze mediorientali, impegnandosi a stringere la mano persino ai nemici iraniani, sciiti e avversari negli sceneri bellici yemeniti. Non solo, orchestrando tagli al petrolio dell’Opec come quello di domenica 2 aprile 2023, che ha colto impreparati praticamente tutti gli attori del mercato globale degli idrocarburi, ha ottenuto esattamente quel che voleva. I tagli alla produzione di circa 1,16 milioni di barili al giorno hanno suscitato l’ira e la disapprovazione degli Stati Uniti, allarmati dalle scelte sempre meno condivise da parte dell’alleato strategico.

Il Gulf Research Center, think tank con sede in Arabia Saudita, ha affermato in proposito: «I tagli dell’Opec mostrano che i principali produttori di petrolio possono liberarsi dalla pressione degli Stati Uniti e dell’Occidente, e perseguire una politica indipendente che metta al primo posto i loro interessi nazionali». Mentre Jim Krane, ricercatore presso il Baker Institute della Rice University, ritiene che «ora siamo in un mercato petrolifero saudita. I produttori non solo guadagnano di più, ma godono di una leva geopolitica molto maggiore quando i mercati sono più stretti».

Ma la domanda è: MbS (acronimo del principe ereditario Mohammad bin Salman) è davvero convinto di essere ormai pronto a fare da solo? Può l’Arabia Saudita fare a meno degli Stati Uniti? Vale qui la pena ricordare che l’America non è soltanto lo storico protettore del regno, ma è anche la ragione per cui questo Paese esiste. Nel 1932, anno della fondazione del Regno, mosse i primi passi la Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi, nonché la più grande società petrolifera al mondo. Ma come nacque precisamente? Aramco altro non è se non un nome derivato dalla contrazione di «Arabian American Oil Company», a indicarne l’origine statunitense: fu infatti con la firma di un accordo di concessione alla Standard Oil of California che i primi pozzi poterono essere scoperti e messi in produzione.

Grazie alla tecnologia degli Stati Uniti - che necessitavano di una fonte illimitata di idrocarburi per garantire alla macchina economica e militare di farne la superpotenza che è diventata - Riad potè prosperare, protetta dal più grande esercito al mondo. E così è stato sinora, anche e nonostante: le crisi petrolifere degli anni Settanta; la nazionalizzazione di Aramco; l’11 settembre (gli attentati come noto sono opera dei sauditi, fedeli a Osama bin Laden); adesso la stretta di mano tra il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif, e il capo della diplomazia di Riad, Adel Al Jubeir, in territorio turco.

Insomma, un conto sono le mosse strategiche di Bin Salman che puntano a creare le condizioni minime per consentire all’Arabia Saudita di concentrarsi sul vasto piano di trasformazione economica - Vision 2030 - dove il Regno sta investendo centinaia di miliardi di dollari. Un altro è credere che Riad possa fare davvero a meno di Washington. Il cambiamento strategico è iniziato nel 2019, dopo gli attacchi dei ribelli Houthi (yemeniti sostenuti e armati dall’Iran) alle strutture petrolifere di Aramco, che hanno convinto MbS a dubitare degli impegni securitari assunti dagli Stati Uniti nella regione; inoltre, i sauditi temono di rimanere coinvolti nel fuoco incrociato degli attacchi israeliani contro obiettivi iraniani. Ma il punto è che, come sottolinea Elisabeth Kendall, esperta di Medio Oriente presso il Girton College di Cambridge, «probabilmente l’Arabia Saudita spera che, sciogliendo le relazioni con l’Iran, eviterà di essere coinvolta in un altro conflitto regionale, eliminando così il rischio di un altro attacco diretto iraniano alla sua infrastruttura, come i paralizzanti attacchi del 2019 ad Aramco».

Dunque, una mossa preventiva e distensiva che consente a MbS, di giocare su più tavoli. Anche così si spiega la volontà di far uscire dall’isolamento regionale la Siria di Bashar al-Assad: Bin Salman ha infatti deciso di invitare il presidente siriano al vertice della Lega Araba il prossimo 19 maggio. Parallelamente, il principe Faisal bin Farhan, ministro degli Esteri saudita, si recherà a Damasco per consegnare ad Assad un invito formale a partecipare al vertice. Non è tutto. L’Arabia Saudita ha anche annunciato di voler aderire all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, organismo intergovernativo a trazione asiatica guidato dalla Cina di Xi Jinping. E a poco è valsa la smentita di Riad alla notizia trapelata dal regno, secondo cui la Cina potrebbe addirittura costruire una fabbrica di armi in Arabia Saudita. La Casa Bianca non l’ha presa affatto bene.

Certo, è nota la diffidenza tra i democratici, Joe Biden in primis, e il principe saudita. Ma la ragion di Stato viene prima di tutto. Bene ha detto Shadi Hamid, analista della Brookings Institution di Washington: «Il principe ereditario ha deciso di coprire le sue scommesse, sia come concessione alla realtà, ma anche come modo per provocare gli Stati Uniti a prestare maggiore attenzione alle loro preoccupazioni per la sicurezza. Gli Stati Uniti sono stati infastiditi ma non hanno reagito in alcuna maniera. Il che, a sua volta, ha incoraggiato l’Arabia Saudita a continuare ad approfondire le sue relazioni con i principali avversari dell’America». Se è dunque vero che i crescenti legami di Riad con Pechino sollevano malumori a Washington, i tentativi cinesi di esercitare influenza in un Paese storicamente di «giurisdizione» americana non cambieranno la politica degli Stati Uniti in Medio Oriente. Anche perché non conviene né all’America né all’Arabia.

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