Sergio Mattarella
Sergio Mattarella a Roma il 21 febbraio 1992 (Ansa).
Politica

Ritorno alla prima Repubblica

L'editoriale del direttore

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Dopo trent’anni si riparte dalla legge elettorale che doveva riformare la vita democratica di questo Paese. Sempre sotto l’occhio vigile e affettuoso di SergioMattarella.


Come nel gioco dell’oca, alla fine siamo tornati alla casella di partenza. Ma non per via del fatto che dopo sette anni è stato rinominato presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Piuttosto perché dopo trent’anni si riparte dalla fine della prima Repubblica, cioè dalla legge elettorale che doveva riformare la vita democratica di questo Paese, regalandoci governi stabili e garantendo ai cittadini il diritto di scegliere da chi farsi rappresentare. Il referendum che ci fece uscire dal sistema proporzionale, con la cancellazione delle preferenze, risale al 9 giugno 1991.

A promuoverlo fu Mario Segni, un ex parlamentare democristiano, figlio d’arte, perché il padre era stato presidente della Repubblica. Insieme a un gruppo di un centinaio di parlamentari dc raccolse le firme per l’introduzione di una legge uninominale e quando si votò, anche se il quesito era stato amputato dalla Corte di Cassazione, fu un plebiscito, con il 96% dei sì. Probabilmente fu la picconata definitiva a un sistema pericolante, perché meno di un anno dopo arrivò Mani pulite e i partiti che avevano governato dal dopoguerra in poi furono spazzati via da una furia di rinnovamento che forse, insieme con l’acqua sporca, gettò via anche il bambino, cioè una fragile idea di rinnovamento.

Sta di fatto che dopo la vittoria di Mario Segni e la cancellazione di un pezzo del sistema, in piena Tangentopoli il 4 agosto del 1993 le Camere approvarono una nuova legge elettorale, su suggerimento di un altro parlamentare dc, tal Sergio Mattarella, che nel curriculum vantava oltre a un decennio a Montecitorio anche due incarichi da ministro: prima con Giovanni Goria e Ciriaco De Mita ai Rapporti con il Parlamento, poi con Giulio Andreotti all’Istruzione. Ribattezzato con una certa ironia dal politologo Giovanni Sartori «Mattarellum», in sostanza il nuovo sistema era un ibrido, cioè una specie di mostro, con una parte che prevedeva l’elezione a turno unico con il maggioritario e un 25% assegnato con un meccanismo proporzionale.

Quando gli italiani furono chiamati a votare con l’invito a scegliere due schieramenti, o la Casa delle libertà guidata da Silvio Berlusconi o la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, in realtà non esisteva un vero bipolarismo, perché ogni partito si era tenuto le mani libere. E infatti, appena Oscar Luigi Scalfaro gli offrì l’occasione, Umberto Bossi si liberò dall’abbraccio del Cavaliere, facendo cadere il governo ma non la legislatura.

Ecco, sono passati trent’anni, per l’appunto, ma dopo la nomina di Mattarella si torna a parlare di legge elettorale, che sarebbe la quarta dopo quella che porta il nome del capo dello Stato. Già. Dal 1946 al 1993 l’Italia ha campato con un solo sistema, facendo e disfacendo governi e legislature. Poi per 12 anni si è attenuta al Mattarellum, quindi sono venuti il Porcellum (copyright Roberto Calderoli), l’Italicum (affossato dalla Corte costituzionale) e il Rosatellum, il meccanismo in vigore tuttora. Che però ha un difetto: se si votasse oggi, dopo il taglio dei parlamentari voluto dai grillini e soprattutto con le coalizioni a pezzi conseguenza del Mattarella bis, avere una maggioranza che governi non sarebbe facile.

O forse sì, ma una parte del Parlamento, quella che rischia di più, cioè i Cinque stelle e metà degli onorevoli del Pd che, in quanto ex renziani, temono di andare a casa vuole mettersi al riparo, cioè garantirsi se non la rielezione per tutti (impossibile visto che le Camere sono state messe a dieta e dimagriranno di un terzo), quanto meno di contare ancora qualche cosa.

Risultato, per la quinta volta in trent’anni si rimette mano alla legge elettorale. Non alle tasse troppo alte, alle bollette troppo care, agli ospedali sottorganico: al meccanismo per la rielezione degli onorevoli. Lo so, rischio l’accusa di populismo, che di questi tempi è quasi peggio di quella di fascismo. Tuttavia, questa è la realtà: il Parlamento presto sarà impegnato a discutere del sistema elettorale. E la strada su cui i partiti si stanno incamminando è un ritorno al proporzionale. Vi ricordate quando Matteo Renzi e compagni dicevano di volere una legge che il giorno dopo consegnava la vittoria, e il governo, a questo o a quello schieramento? Lo dicevano anche Berlusconi e gli altri leader.

Ma ora forse non è più di moda e tutti vogliono le mani libere, più ancora di quelle che garantì il Mattarellum tre decenni fa. In pratica, le coalizioni, di destra o sinistra saranno morte o finte e ogni partito giocherà per sé, cercando dopo il voto l’alleanza più conveniente. Del resto, questo è ciò che è accaduto anche nell’attuale legislatura, grazie non a una legge proporzionale in senso stretto, ma a un sistema che permette ogni «mossa del cavallo», anche quella più incredibile, ossia il contrario di quanto si è detto in precedenza.

La prima Repubblica cedette il passo alla seconda con una legge elettorale che prometteva il cambiamento. La seconda ora cede di nuovo il passo alla prima, che non è mai morta ma, grazie anche al nuovo sistema, si prepara a risorgere, sempre sotto l’occhio vigile e affettuoso di Mattarella...

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Maurizio Belpietro