Orsini: «Vado in scena come se giocassi a tennis»
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Orsini: «Vado in scena come se giocassi a tennis»

L’inizio - imprevisto - declamando atti notarili, la celebrità con sceneggiati che hanno fatto la storia della tv, il teatro come passione assoluta. E poi gli amori con donne bellissime, e il giudizio sugli attori di oggi «che sì recitano sofocle, Ma con il microfono...».


Il teatro non è un bacino di voti, stanno più a cuore i balneari. Politici in platea ne ho visto pochi. Anche se ho avuto gli applausi dei presidenti Pertini, Ciampi, Scalfaro, mio concittadino di Novara, e Napolitano. Mattarella no, è andato a Sanremo». Umberto Orsini, 89 anni il 2 aprile, non si lamenta della distrazione politica, che tratta il teatro come una Cenerentola delle arti e della cultura. Ne prende atto. Sotto i suoi occhi da protagonista il teatro ha perso la centralità che gli spettava da secoli.

Orsini viene da lontano. Debuttò con la Compagnia dei Giovani nel 1957: i primi a mettere in scena, in Italia, Ildiario di Anna Frank. Poi recitò con la compagnia Morelli-Stoppa, Enrico Maria Salerno, Gabriele Lavia... Venne diretto da Luchino Visconti e Luca Ronconi, e al cinema ancora da Visconti, Fellini, Dino Risi, Patroni Griffi e via elencando. Con gli sceneggiati dell’epoca d’oro - tra cui i popolarissimi La pisana e I fratelli Karamazov - brillò come star televisiva, aumentando la celebrità con i Caroselli. E, dopo 65 anni di «trincea», non molla. «Ho una compagnia privata, produco spettacoli scelti da me - come la commedia di Nathalie Sarraute Pour un oui ou pour un non, che ho appena recitato con Franco Branciaroli. Investo denaro mio e non aspetto aiuti, se non quelli di legge. Ma non sono cieco. Mi fa male vedere quanto è disastrata Roma. Mancano due teatri storici: il Valle, sbarrato da tempo, e l’Eliseo, chiuso per la pandemia e mai più riaperto. Ci sono problemi con la proprietà di Luca Barbareschi. La politica, di ogni colore, non farà nulla.

Eppure la gente a teatro è tornata.

Dopo il Covid ha ripreso ad affollare le sale. Non dei cinema, che si vede a casa. La magia del teatro bisogna andarsela a cercare, la gente esce, sorride al vicino di poltrona con la certezza di condividere un rito e far parte di un vasto, ma non troppo, gruppo di persone speciali.

Orsini è come Claudio Baglioni, fa ore di palestra per essere «performante» e affrontare il pubblico?

Vado in scena come se giocassi una partita di tennis o di calcio. Ma non ho mai fatto palestra. Dedico due ore ogni giorno alla cura di me stesso: cammino, corro un po’, talvolta prendo la racchetta e gioco. Poi c’è l’esercizio delle prove. E alleno il cervello. Mando a mente dieci righe al giorno. Ho circa sei ore di testi memorizzati nel mio file mentale: per prendere sonno, se mi corico inquieto, me ne ripeto dei pezzi. Funzionano meglio delle pecorelle. La mia fortuna, tocco ferro, è che godo di buona salute.

Da ragazzo immaginava che avrebbe avuto una carriera così importante?

Non immaginavo neppure che avrei fatto l’attore. Non sono figlio d’arte. Mio padre gestiva una mensa per ufficiali, a Novara. È stato tutto un caso. Sono diventato attore a mia insaputa, per colpa di alcune ragazze molto carine e dolci.

Le conquistò con il suo aspetto?

Il merito fu della mia voce. Lavoravo in uno studio notarile di Novara, dopo Giurisprudenza a Milano. Il notaio era stato operato alla gola e non poteva leggere gli atti ai clienti. Lo facevo io. Leggevo con pause studiate e voce impostata. Ebbi successo tra le ragazze dello studio, al punto che mandarono a Roma la mia richiesta d’iscrizione all’accademia Silvio D’Amico. Senza farmelo sapere.

Il resto è storia. Gli inizi furono facili?

Sul treno che mi portava a Roma, da Milano, incontrai Orson Welles. Non gli dissi una parola, non conoscevo l’inglese. Eravamo in corridoio a fumare: io sigarette, lui un enorme sigaro, che quasi mangiava. Considero quell’incontro un buon viatico. Lo ricordai anni dopo a Welles, in Grecia. Giravo Il marinaio di Gibilterra, film di Tony Richardson con Jeanne Moreau, nel quale Welles aveva un cameo. Con l’inconfondibile voce, da sotto un gigantesco Panama mi squadrava dicendo «oh yes, Milano, Roma, treno». Una scena da attore navigato.

Quanto contano gli incontri fortunati?

Tanto. Ricordo Luchino Visconti, di cui il 15 maggio leggerò al Piccolo di Milano la biografia scritta da Testori. E Romolo Valli, Giorgio De Lullo, Carlo Giuffrè, Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri, Elsa Albani. Insomma, la Compagnia dei Giovani, la quale, detto senza boria, ha segnato la storia del teatro novecentesco.

E Federico Fellini? Pure quello è stato un incontro importante.

Ero poco più di una comparsa in La dolce vita. Avevo il compito di slacciare l’abito, da dietro, a Nadia Gray, per la scena dello spogliarello nella villa. Fellini era maniacale. Dovetti ripetere quella scena molte volte. Denudai la schiena della Gray per 15 giorni. Poco male, pagavano bene e con quel gruzzoletto, finite le riprese, me ne andai in Inghilterra. Allargai i miei orizzonti, oltre che imparare l’inglese. Anche se la mia seconda patria artistica rimane la Francia.

Con I fratelli Karamazov di Sandro Bolchi, nel 1969, lei ha appassionato in tv 15 milioni di italiani.

Non si può paragonare a oggi. Allora c’era un solo canale, adesso è tutto spezzettato, numeri del genere non li fa nemmeno Montalbano. Certo, trasmettevano cose di qualità, io sono sempre stato attento a scegliere bene. Per il cinema ho fatto anche parti di scarsa importanza: mettevo in tasca una buona somma, se il film era brutto pazienza, pochi sarebbero andati a vederlo. Invece tesaurizzavo la platea televisiva: tanti, vedendomi in tv, poi venivano ad applaudirmi.

Parliamo delle donne che ha amato.

Le pare che mi metta a vantare le mie conquiste? Con la dolcezza dei ricordi, parlo volentieri dei miei due grandi amori: Rossella Falk ed Ellen Kessler. Rossella non c’è più, siamo rimasti amici fino all’ultimo. La nostra storia, tormentata, durò solo due o tre anni. Era in sedia a rotelle, negli ultimi tempi, e quando andavo a farle visita mi prendeva ancora in giro perché da giovane, quando ci siamo conosciuti, sbagliavo tutti gli accenti e lei mi correggeva. Tenendole la mano, da vecchio, li sbagliavo apposta, per sentirla di nuovo ridere e bacchettarmi.

E la gemella Kessler?

Ha due anni meno di me, è tornata da tanto a vivere in Germania. Ci telefoniamo, per gli auguri. Si meraviglia che io lavori ancora, le sembra una stranezza. Siamo stati insieme, nella nostra casa di Trastevere, circa 12 anni. Ma eravamo sempre in giro per il mondo, chi da una parte, chi dall’altra. Se mettessi insieme i giorni condivisi con lei, non raggiungerebbero un anno. A ben pensarci, è merito mio se le Kessler si fermarono in Italia. Chiesi ad Antonello Falqui chi delle due, vestite di piume in uno studio Rai, mentre io ero in abito settecentesco perché registravo I Giacobini, fosse libera. Mi rispose Ellen, indicandomela. La misi a fuoco, per non confonderla con la sorella, e la corteggiai. Se non avessimo fatto coppia, Alice ed Ellen avrebbero lasciato Roma molto prima.

Dica la verità: le manca un figlio?

Me lo chiedono spesso. Rispondo che sarei terrorizzato di sentir bussare alla porta, aprire e trovarmi davanti un uomo o una donna di 65 anni. Fare il papà, adesso sarei nonno di nipoti già grandi, non è nella mia natura. La mia famiglia è la Compagnia, i miei figli sono gli attori giovani, tutti del ceppo di Luca Ronconi.

Ci sono bravi attori oggi?

Vuole che le dica dopo di me il diluvio? C’è una generazione di attori validi, come Tony Servillo, Luca Marinelli, Massimo Popolizio, Silvio Orlando. Purtroppo tanti, non quelli citati, hanno l’ansia di aver successo più con le fiction che con il teatro. Poi c’è il malcostume dei microfoni. Nessuno è più capace di portare la voce naturale al pubblico come noi della vecchia guardia. A Siracusa, nel teatro greco, recitano sì Sofocle ma con il microfono. Andrebbe scritto sui manifesti: spettacolo con attori «amplificati».

Come sceglie i testi da portare in scena?

Credo di essere l’unico attore manager: dal 1980 al 1997 ho diretto il teatro Eliseo di Roma. Ma scelgo sempre spinto dal mio piacere. Sono lettore più di Adelphi che di Rizzoli, senza offesa per questo editore... Prediligo Thomas Bernhard, Nathalie Serraute. E poi Dostoevskij, Ibsen, Edward Albee, Virginia Woolf e altri giganti. Nel 2024, con Branciaroli, ho in programma di mettere in scena I ragazzi irresistibili, da Neil Simon.

Orsini, lei non smette di essere un ragazzo.

Il bello del teatro è che offre sempre ruoli adatti. Dio non voglia, ma se un domani mi succedesse di non poter camminare, ci sono ottime parti per chi deve stare in sedia a rotelle.

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Antonio Bozzo