Raffaele Cutolo
Il boss Raffaele Cutolo in tribunale nel 1986 (Ansa).
Inchieste

Cutolo, diario di un camorrista

Dietro le sbarre il boss Raffaele Cutolo scriveva poesie, lettere e annotazioni poi disperse negli archivi e nei fascicoli giudiziari. Ora una parte inedita di quel materiale è stato recuperato dal saggista Antonio Mattone e Panorama la pubblica in esclusiva.


Chiuso in cella, «in regime di 41- bis», il boss Raffaele Cutolo, scriveva giorno dopo giorno poesie, lettere, diari dispersi negli archivi, tra i fascicoli giudiziari e i registri carcerari. Panorama ha potuto visionare questi testi originali: versi illetterati, riflessioni spesso tristi, formule di giuramento di fedeltà alla camorra, messaggi agli affiliati, sogni di immortalità, e date. Natale 1982. All’Asinara il detenuto aveva appuntato per esempio su un’agendina: «Ho tanto bisogno di un sorriso...». Il 31 dicembre: «Mi hanno tradotto a Nuoro... Ho passato l’ultimo dell’anno con un panino e un bicchiere d’acqua». E il 1° gennaio: «Auguro a tutti che l’amore diventi vita e ci sia pace e serenità», affermava (mentre i suoi affiliati continuavano a sparare).

Allora Cutolo era a capo della Nuova camorra organizzata, in guerra con la Nuova famiglia, un cartello che includeva tutti gli altri clan del Napoletano, e si contendeva gli appalti della ricostruzione dopo il terremoto nel Sud Italia; affari e finanziamenti per 60.000 miliardi. Solo nell’hinterland partenopeo, nel 1980 si contarono 134 omicidi; nel 1981, 193; poi 237 per arrivare, nel 1983, a 238. La cosca era diventata una holding con interessi estesi, guidata dal «professore», l’«ingegnere», il «pazzo», il «mostro», il «messia», come lo avevano chiamato. Fece da mediatore con le Brigate rosse che avevano preso in ostaggio l’assessore campano Ciro Cirillo. Dalla galera esercitava il suo carisma, costruiva il suo prestigio. Rivendicava un ruolo. Sentenziava: «Si dice: tutte le strade portano a Roma. Io dico: tutte le storie di grande criminalità portano a Roma».

Su un foglio scolastico «don Raffaè» (dopo la celebre canzone, scrisse pure a Fabrizio De Andrè) traduceva frasi semplici in inglese e concetti definitivi, di sfida, in maccheronico latino. «Aqui decis cammorra es una cosa prohibida», ovvero «qui parlare di camorra è vietato». Ai collaboratori di giustizia Cutolo aveva indirizzato più di una paginetta per esprimere «tutta la sua collera». Ammoniva: «I falsi pentiti non sono altro che inventori di odio». Sua anche «N’ommee’ camorra», una poesia rivolta a un killer sanguinario e lodata dalla critica, ma scopiazzata dal grande Ferdinando Russo. La più atroce è dedicata al «Testimone innocente»: il piccolo orfano dei genitori Antonio Cuomo e Carla Campi che lo stesso autore dei versi aveva fatto uccidere perché «maestri di tradimento».

Questi componimenti sono custoditi tra i documenti dei processi, ma sono stati anche inseriti in Poesie e pensieri, volume pubblicato dalla casa editrice Berisio di Napoli nel 1980 e all’epoca finito all’attenzione dei magistrati perché ritenuto mezzo di propaganda per reclutare affiliati. «Il testo circolava come una bibbia criminale tra i giovani reclusi che trovavano in Cutolo quasi un’autorità morale. Nella fitta corrispondenza che si scambiavano, molti gli promettevano di non deluderlo mai» sintetizza Isaia Sales, saggista e scrittore di tanti libri sul fenomeno, il più recente è Teneri assassini (Marotta e Cafiero), mentre una storia completa delle camorre sarà data alle stampe in autunno per Rubettino.

Lo studioso certifica: «Cutolo è stato il criminale più ideologico nelle mafie italiane, affascinava anche terroristi. Scriveva di amicizia con la A maiuscola. Aveva un suo credo, una sua “filosofia”». E detestava la droga. In Polvere bianca, descriveva così la cocaina: «Sei dolce e amara / come una donna...». La Signora della notte era metafora della zanzara. «Che non uccide /Anzi, fa compagnia / È sentirsi vivi /A tanta gente che si trova a soffrire / Il brivido della solitudine». L’Aquila, insieme nome del rapace e della città in cui Cutolo era stato recluso, diventava invece Sogno. «Sogno. Nel cielo. Un’aquila meravigliosa», ossia la libertà agognata che scompariva.

Un componimento, Supercarcere, venne pure premiato dai frati francescani della Basilica di San Lorenzo Maggiore a Napoli: fu scelto da una giura presieduta da Liliana de Curtis, la figlia di Totò, che non sapeva fosse lui l’autore. Poesie dal carcere (edizioni Neomeditalia) è un’altra sua raccolta, nel 2018, curata da Gianluigi Esposito e presentata come una «dichiarazione di conversione spirituale».

Gli ultimi manoscritti, quelli mostrati da Panorama, si devono invece ad Antonio Mattone, autore del libro La vendetta del boss incentrato sull’omicidio di Giuseppe Salvia. «Ho ritrovato il materiale, tra cui diversi inediti e persino una cartolina ingiallita scritta da Cutolo, indagando sulla vicenda del vicedirettore del carcere di Poggioreale fatto ammazzare il 14 aprile 1981» dice lo scrittore, spiegando che nell’istituto penitenziario ha anche recuperato una sorta di manuale per i «riti di iniziazione», dai toni sorprendenti. «Omertà bella, come mi insegnasti piena di rose e fiori mi copristi...» annotava il capocamorra in un passaggio. «Aggiungere grazia e bellezza serviva a nobilitare il rito ripreso dalla ’ndrangheta calabrese» ha spiegato Sales. «C’era uno scambio tra le due organizzazioni: Cutolo aveva fatto giuramento di fedeltà a entrambe».

Mattone ha incontrato Cutolo, il 22 luglio 2019. «Ricurvo, appoggiato sul divisorio, proteso con lo sguardo verso di me. Il volto smagrito, la balba incolta. Le mani deformate dall’artrite reumatoide. Non lo avrei riconosciuto se non avessi saputo che era lui». Del colloquio e delle rivelazioni nel suo libro, l’autore parla anche in un documentario Rai con la regia di Raffaele Brunetti girato a distanza di un anno dalla morte dell’ex padrino di Ottaviano, avvenuta il 17 febbraio 2021. E, in tv, insiste sulle contraddizioni e l’opacità nel rapporto tra il boss e i servizi deviati. «Quindici giorni dopo l’omicidio Salvia, lo Stato chiese aiuto al boss per liberare l’assessore anziché perseguirlo subito come mandante del delitto atroce» fa notare.

Il giudice Carlo Alemi si occupò del caso Cirillo. A proposito del carteggio dell’epoca, chiarisce a Panorama: «Ci sono una serie di documenti attinenti a Cutolo fatti sparire». Un esempio? «La lettera di un parlamentare democristiano trovata durante una perquisizione a casa del boss e non inserita nel fascicolo. Gli interrogatori di Cirillo da parte delle Br: chiesi ai figli questi verbali e li feci trascrivere, ma erano stati alterati e in parte modificati». Ancora: «La relazione che il vicequestore Antonio Ammaturo aveva trasmesso al ministero prima di essere ammazzato, il 15 luglio 1982. Se si riuscisse ad abolire integralmente il segreto di Stato, una traccia della verità, ben custodita negli archivi, potrebbe riemergere...».

Alemi rammenta pure che allora il boss era «sottoposto a censura». Ossia veniva vagliata l’intera corrispondenza, in arrivo e in uscita. E però. «Mi vennero mandati pochi fogli, quando chiesi copia delle lettere». In una di queste, appena sottratta all’oblio, Cutolo scriveva di sé: «Io sono un uomo del passato e del futuro, che scorre come scorre il fiume nel tempo, perciò le mie giuste e sagge idee non moriranno mai. Scorreranno nella mente». Peccato che, nella realtà, l’interpretazione di questo autoritratto risulti ben diversa.

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Maria Pirro