Bonanno, il profeta degli anarchici
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Bonanno, il profeta degli anarchici

Prima che agiscano, volete capire come ragionano i nuovi insurrezionalisti e quali sono i loro obiettivi? Bisogna andare a Trieste, da un bancario in pensione. È Alfredo Maria Bonanno, ideologo.

A Trieste vive un pensionato un po’ speciale. Barba e capelli candidi, figura slanciata e occhiali da sole, esce la mattina per accompagnare il figlio undicenne in una scuola bilingue (italo-slovena), poi va a fare la spesa: sceglie la frutta sulle bancarelle sotto casa, va a comprare i prodotti biologici sempre nello stesso supermercato. Una vita normale, non fosse che stiamo parlando di uno degli uomini più monitorati dalle squadre antiterrorismo di mezzo mondo: Alfredo Maria Bonanno, catanese, classe 1937, due lauree in tasca (filosofia ed economia), teorico indiscusso di quell’anarchismo insurrezionalista che negli ultimi anni, con le nuove leve della Federazione anarchica informale (la Fai, sorta nel 2003), ha colpito in una decina di stati. L’ultimo caso è il ferimento del top manager dell’Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi, a Genova il 7 maggio.

Bonanno nel 2009 è stato arrestato in Grecia: aveva preso parte a una rapina con un vecchio compagno di scorribande. Quasi un revival degli anni 80, quando Bonanno, ex sportellista del Banco di Sicilia, negli istituti di credito entrava con la pistola in mano. Dopo un anno di detenzione fra il carcere di Amfissa (detto «il crematorio») e quello di Atene (dove ha incontrato i bombaroli greci della Cospirazione delle cellule di fuoco) è tornato in Italia con qualche acciacco in più e una rosa rossa per l’affascinante consorte: Annalisa, compagna di lotta e di vita. Per lei, di 33 anni più giovane, Bonanno si è trasferito a Trieste alla fine degli anni 90. L’ha poi sposata con rito civile e festicciola borghese nel 2009, dopo avere ottenuto il divorzio dalla seconda moglie (un’anarchica inglese). Per l’occasione Bonanno, abito scuro e camicia bianca senza cravatta, ha persino accettato un fotografo da cerimonia.

Alla Digos di Trieste pensavano che la bravata greca fosse stata il canto del cigno. Anche perché, per quanto nullatenente e irriducibile, Bonanno ormai fa la vita dell’italiano medio: porta la famiglia al ristorante (ama la cucina triestina), festeggia il Natale e ristruttura casa con l’aiuto del suocero (più giovane ed esperto di lui nei lavori manuali). La moglie è titolare di una libreria, nonché proprietaria del trilocale soppalcato dove vivono, in uno storico palazzo, e di una berlina grigia.

Ma resta un punto di riferimento. Lo mostra il viavai di anarco-insurrezionalisti italiani e stranieri che continuano a fargli visita per confrontarsi con lui. Uno dei più assidui frequentatori è Massimo Passamani, quarantenne di Rovereto, considerato il suo delfino (da giovane era redattore nelle riviste dirette da Bonanno) e oggi particolarmente attivo nella protesta anti Tav in Val di Susa. Il suo mentore continua a elaborare analisi e libri per i seguaci. Ma soprattutto dialoga con i nuovi terroristi, quelli in cima alle preoccupazioni dei nostri 007, come pure del capo della polizia e del presidente della Repubblica. Questi nuovi terroristi a volte polemizzano con Bonanno, però non riescono a ignorare la sua figura e la sua dottrina. L’ultimo esempio è la rivendicazione della gambizzazione di Adinolfi, firmata dal nucleo Olga della Fai. Per capire che cosa ne pensi Bonanno bisogna visitare un sito anarchico con domicilio fiorentino, che per gli esperti trasmette in tempo reale al mondo il pensiero dell’ideologo siciliano.

A metà maggio vi è apparso un articolo intitolato «Quaranta», non firmato. Nel testo si ricorda l’anniversario della morte del commissario Luigi Calabresi. Un delitto che non viene in alcun modo criticato e di cui è apprezzata la mancata rivendicazione: «L’omicidio Calabresi è sempre stato considerato privo di paternità, figlio di nn, anonimo. Partorito dalla selva oscura. Solo ciò che non è proprietà di nessuno può appartenere a tutti». Poi il testo vira sull’attentato ad Adinolfi; il manager viene bollato come «uno dei più immondi manager di stato». Pare l’approvazione dell’attentato. Poi, però, l’estensore polemizza con gli autori: «La rivendicazione è arrivata ai media ed è subito stata presa in considerazione. Niente selva oscura, ma luci al neon accese al massimo per illuminare la propria figura. Essendo esclusiva proprietà di qualcuno, quell’azione non potrà quindi appartenere a tutti». Ecco il primo motivo di divisione tra Bonanno e le nuove leve: la ricerca dei riflettori, un certo narcisismo. Una scelta che sa di elitarismo, di avanguardie armate (tipiche dell’eversione di matrice marxista-leninista), più che del modello d’insurrezione diffusa e anonima, caro a Bonanno. L’ideologo, autore nel 1977 del libello Gioia armata, non ammette «la costituzione di un’organizzazione specifica che rivendichi i vari attacchi contro il potere». L’estate scorsa Bonanno ha posto al centro dell’agenda anarco-insurrezionalista la questione della (modesta) «crescita quantitativa» dell’organizzazione. La Fai si dev’essere sentita chiamata in causa, visto che pochi giorni dopo ha diffuso in rete un documento, intitolato «Non dite che siamo pochi», dove ha ribadito la scelta della lotta armata: «Dalla molotov all’assassinio, senza gerarchia d’importanza».

Nonostante questi scambi e i distinguo, è indubbio che tra la Fai e Bonanno siano numerosi i punti di contatto. A partire dal fastidio per gli anarchici che protestano nelle piazze con la gente. Ma ci sono molte altre sintonie. Per capirlo basta tornare all’11 gennaio 2011, a Trieste. Quella sera Bonanno, accompagnato dalla moglie e dal figlio piccolo (ne ha altri due, quarantenni, avuti dalla prima consorte, la siciliana Carmela), va alla presentazione di un opuscolo elaborato dal suo discepolo Passamani. In una libreria d’area il giovanotto inizia di fronte al maestro la tournée per diffondere i temi della nuova campagna libertaria. Il titolo del pamphlet è Una piovra artificiale, Finmeccanica a Rovereto. L’indomani Passamani e Bonanno sono al tavolino di un caffè del centro, immersi in una lunga discussione.

Un anno e mezzo dopo i killer della Fai hanno copiato quasi letteralmente interi brani di quel dossier nella rivendicazione dell’attentato di Genova. La reazione di Passamani e dei suoi alla scomoda citazione? Il 15 maggio hanno pubblicato sul web uno scarno comunicato dove si precisa che non hanno «lacrime per chi mette le proprie competenze al servizio della guerra e dell’apocalisse atomica».

Certo, la Fai potrebbe avere scelto di citare il testo di Passamani in modo provocatorio, come a dire: voi intellettuali scrivete, noi agiamo. Su questo punto gli analisti dell’antiterrorismo non si sbilanciano. Ma c’è un passaggio della rivendicazione della Fai che inquieta, là dove sono elencati «i tanti uccisi dalla repressione statale» che hanno insegnato «a non aver paura della morte». Fra loro sono citati anche Aldo Marin Pinones, Attilio Di Napoli, Salvatore Cinieri, deceduti più di 30 anni fa. Tre membri di Azione rivoluzionaria (Ar), un gruppo «anarcocomunista » sorto negli anni 70 a cavallo tra la Liguria e la Toscana e riaffiorato dall’oblio nel 2008, quando uno dei tanti siti in odore di eversione ha pubblicato il loro «primo documento teorico» datato 1978.

Da dove spunta quel vecchio volantino? La fonte è L’ipotesi armata (1990), una raccolta di carte degli anni di piombo. L’autore? Bonanno. In fondo Di Napoli e compagni propongono come modello i «gruppi di affinità», basati «su conoscenza e fiducia reciproca» e indispensabili «per garantirsi contro le infiltrazioni», lo stesso cavallo di battaglia dell’ideologo catanese. Un altro passaggio del documento del 1978 fa sobbalzare: «I tecnici del Pci sognano un’Ansaldo che nuclearizzi tutto il pianeta, una specie di follia omicida».

È interessante notare che Ar (di cui Bonanno non condivideva la scelta della clandestinità) si è disciolta nel 1980 durante il processo di Livorno e che proprio la città toscana è un luogo simbolo per la Fai: nel 2011 un pacco bomba ha mutilato un colonnello della Folgore e una rivendicazione del 2005 è stata dedicata a un giovane deceduto nel carcere cittadino. Resta da capire chi, nella Federazione anarchica informale, tramandi le gesta di Azione rivoluzionaria alle nuove generazioni. Una curiosità che potrebbe soddisfare Bonanno, l’amanuense che di Ar ha messo in salvo i documenti. L’uomo, però, abbassa subito la cornetta: «Ai giornalisti non rispondo» dice. Forse gli interessa di più conversare con chi la pensa come lui.

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Giacomo Amadori

(Genova, 1970). Ex inviato di Panorama e di Libero. Cerca di studiare i potenti da vicino, senza essere riconosciuto, perciò non ama apparire, neppure in questa foto. Coordina la sezione investigativa dellaVerità. Nel team, i cronisti Fabio Amendolara, Antonio Amorosi e Alessia Pedrielli, l'esperto informaticoGianluca Preite, il fotoreporter Niccolò Celesti. Ha vinto i premi giornalistici Città di Milano, Saint Vincent,Guido Vergani cronista dell'anno e Livatino-Saetta.

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