Giorno 2, la Clinica di Outeiro
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Giorno 2, la Clinica di Outeiro

Giovanni visita la Clinica di Outeiro e ricorda un passato ormai lontano

Non immaginavo niente, prima di andare alla clinica.
Non ho più l’abitudine di fare previsioni, di giocare con il possibile; so che la verità degli accadimenti è sorprendente e ha sempre il sopravvento su qualunque speculazione.

L’odore della sala di attesa della Clinica do Outeiro è come un vento conosciuto, il profumo di una madre: porta impressioni di una vita e mezzo fa, riporta volti e passati come nel turbinio ordinato e cosciente di un caleidoscopio.
Preparo il mio miglior portoghese (mediocre!) per esporre il progetto, mentre Niccolò con Andrea e Gian recuperano, con metodo, informazioni presso la sede di un giornale locale.

Gioco a carte scoperte, arriva Yvonne: non l’avevo riconosciuta dalle foto di Facebook È lo staff autorevole del periodo in cui ho fatto il mio percorso qui in Portogallo, ma il suo viso è più dolce: le sue maniere non devono più trattare un tossicomane, sono tornato dopo essermi battuto.
Ci riceve con grazia, mi conquista subito. Ci accordiamo su liberatorie e metodi di regia, si parla d’interviste con garbo, mentre prego per ottenere il massimo da questa giornata.

Mi sforzo di non essere neutro o troppo cordiale: sono qui per ricordare, non per fare amicizie.
La foresta di eucalipto circonda la clinica e sovrasta le colline tutt’intorno: la vista mozza il fiato, i ricordi tagliano il respiro. Mi siedo sempre più spesso, mentre spero che la telecamera non indovini i miei pensieri, mentre voglio pensare che i miei occhi non lascino intravedere che il cuore sussulta.

Rivedo persone come fantasmi, chiedo di loro: sono troppi e troppo lontani dall’oggi, per saperne qualcosa.
«Già, claro!», rispondo con mezza voce.
Ci offrono l’almoço (pranzo) e mi sento onorato: quando ero un residente della clinica il tavolo degli staff, dove ora mangiamo, era un sogno proibito!
Gli amici si accorgono che le emozioni mi spezzano le gambe.

C’è meno gente, ora che il programma si è spostato a Gondomar, Porto.
Qui rimangono i membri del Duplo Diagnostico, i tossicomani che hanno anche problemi psichiatrici, ma sono calmi, sedati: la vita frenetica e le urla del 2004 si sono appese ai miei ricordi, come in ragnatele dimenticate.
Le crepe tra i muri, le piante di arancio che ho curato in isolamento, il volto degli staff, ogni passo, le piante potate e gli alberi cresciuti, ogni cosa mi suggerisce un pensiero, muove un ricordo, sposta lo stomaco verso il basso e qualche lacrima verso gli occhi.

Non voglio piangere, uccido barbaramente la commozione con il silenzio.
Ero il chief del gruppo DD, in cima alla struttura piramidale del gruppo: il mio privilegio era quello di potermi sedere sul punto più alto della clinica di fronte all’ultimo sole del giorno.
Di fronte alla finestra aprivo il taccuino che avevo intitolato “200 giorni in Portogallo”, provavo un inizio, un principio, ma le dita si bloccavano subito: non trovavano il passo delle emozioni, sempre rivolte all’Italia.

La foresta profumata era metafora del mio sentire: visibile e presente, ma sempre troppo lontana per percepirne il profumo.
Allo stesso modo erano i volti della mia famiglia e degli amici lasciati a Milano: vicini nel cuore, ma troppo distanti per poter davvero comunicare.

Abbiamo girato molte interviste, specialmente con i ragazzi azzorriani, e abbiamo raccolto qualche riflessione mia e di Nik.
Poi la giornata ha preso velocità, i minuti scorrevano più rapidi nella clessidra flessibile del grande giorno, e il freddo fiato delle colline di Bagunte incoraggiava il passo verso l’hotel.
Guardavo verso la finestra in alto, la stavo fissando.

Chiamo Yvonne, indicando il mio osservatorio… lei sorride e sceglie le chiavi da un mazzo.  Un tempo era il chief a portare il mazzo con le chiavi di tutte le porte al collo.
Un tempo ero io, il chief. Salgo, mi appoggio a una scarpiera e guardo la valle: gli eucalipti sono una meraviglia tutt’intorno, cingono la mia vecchia clinica da vicino.

La foresta era lì con tutta la sua bellezza, proprio come l’amore per i miei famigliari in Italia: non riuscivo a sentire il profumo degli alberi, così come ero troppo distante dai loro volti. Oggi, invece, la foresta è più vicina.

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