Zeman, l'uomo che divide. Difficile anche da esonerare
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Zeman, l'uomo che divide. Difficile anche da esonerare

Ha tanti ammiratori e un esercito di nemici. Che adesso esulta. Storia di un (non) vincente

Dicono che esonerarlo non sia stato semplice per Baldini e non solo perché è stato come cancellare un pezzo del progetto. Zeman non si trovava nelle ore in cui la Roma decideva di scaricarlo. Stava giocando a golf nella sua oasi preferita: telefoni spenti. Irraggiungibile come, forse, è sempre stato in un ambiente che lo ha adorato alla follia, immedesimandosi nel solo pensiero di averlo come condottiero, e poi piano piano se ne è staccato. Scelta dopo scelta, delusione dopo delusione.

"Mister, ci spiace. Lei è fuori" gli ha detto Baldini. Che sia arrivata via sms o con una telefonata la comunicazione ha certamente colpito al cuore il boemo che per tentare la carta del grande calcio a 65 anni aveva abbandonato anche il gioiellino Pescara costruito pezzo su pezzo e riportato in serie A. Il suo trampolino di lancio, l'ultimo dopo una carriera fatta di alti e bassi, polemiche e calcio spettacolo, esoneri e rilanci.

Zeman non è mai stato uno banale e non solo per il modo in cui ha fatto esprimere le sue squadre. Ha sempre diviso in due verticalmente piazze e tifosi: o adorato alla follia oppure contestato. Senza mezzi termini. Mai tranne forse la parentesi di Foggia, quando il giochino è stato talmente bello che tutti se ne sono innamorati e hanno pensato che Zdenek potesse avere un futuro sulle panchine più importanti d'Italia.

Non è successo e un giorno qualcuno spiegherà perché. Moratti ne ha parlato sempre in termini lusinghieri e ci ha anche pensato più di una volta però niente. Il Milan era legato ad altri uomini vincenti. La Juventus non è mai stata casa sua malgrado le origini e la parentela con Vicpalek e l'affetto dell'Avvocato Agnelli. Una porta che si è chiusa irrimediabilmente con la battaglia contro il doping di Zeman che è diventata per tutti la sua guerra personale contro la Juventus.

Non era vero, ma è rimasto agli atti così. Il processo, le assoluzioni, i ricorsi e una prescrizione. Ombre pesanti e che hanno trasformato Zeman in icona di se stesso. Amato dagli antijuventini, odiato dai 14 milioni di tifosi bianconeri, quelli che anche oggi dopo l'ultimo esonero festeggiano quasi avessero vinto un titolo.

Perché Zeman non è mai diventato grande su una panchina che conta? "Certo la mia carriera sarebbe stata diversa. Allenavo la Roma e nel febbraio del '99 mi cercarono prima il Real Madrid, poi il Barcellona. Ne parlai subito con Franco Sensi che mi disse: poche storie, tu da qui non ti muovi ha raccontato un giorno rispondendo alla domanda su quanto gli fossero costate le denunce -. A maggio intimarono al presidente: o cacci Zeman o non vincerai mai lo scudetto. E lui fu costretto a esonerarmi".

Una tesi che fa infuriare i suoi nemici e viene trattata come Vangelo dai suoi agiografi. Di sicuro Zeman la sua chance l'ha avuto a Roma alla fine degli anni Novanta. Un secondo e un terzo posto con la Lazio di Cragnotti, quella costruita per vincere, e un quarto posto con la Roma di Franco Sensi. Non abbastanza per "andare su Google e vedere quanti tituli ha conquistato", come un giorno disse sprezzante Mourinho. E nemmeno per vincere in carriera più di quanto "fatto da Carrera in un giorno solo" come lo impallinò John Elkann pochi mesi fa.

Ora a 65 anni anche l'ultimo treno è passato. Difficile che si possa rivedere Zeman su una panchina di quelle pesanti. Il fallimento del suo progetto, che è anche il secondo fallimento della Roma degli americani, è una pietra tombale sulle sue idee. Resterà per sempre così: appeso ai successi (pochi) e alle sue parole (molte). Condannato a dividere e ad essere personaggio scomodo. Difficile anche da esonerare e non solo per colpa di un telefonino muto.

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Giovanni Capuano