
Trattativa Stato-mafia? I teoremi ammazzano la verità
La Procura di Palermo spaccata, le istituzioni l'una contro l'altra, ex ministri e ufficiali dei carabinieri tra gli imputati accanto ai boss. Uno scempio, mentre la strage di Via D'Amelio resta senza colpevoli.
Basta, per favore, con i teoremi, i processi politici, i calderoni nei quali una certa magistratura vuol mettere i boss accanto ad alti ufficiali dei carabinieri, a un ex ministro dell’Interno, a un altro ex ministro perseguito (o perseguitato?) dalla giustizia e poi assolto dall’accusa di legami con la mafia. Basta con le puntuali fughe di notizie e il gioco delle parti di questo circuito mediatico-giudiziario per il quale la richiesta di rinvio a giudizio contro rappresentanti delle istituzioni e capi-bastone (che si ritroverebbero a sedere l’uno accanto all’altro sul banco degli imputati) è già stata digerita e metabolizzata dal pubblico televisivo come verità acquisita, prodotto della spettacolarizzazione del pentitismo e del romanzo non più criminale ma di (in)giustizia sommaria che si sviluppa in tv da Santoro, mai nella condanna dei colpevoli in tribunale. Parole senza fatti. Ricostruzioni senza prove.
Ci fu o no una trattativa tra “lo Stato” e la mafia dopo l’assassinio del Sindaco di Palermo, Salvo Lima? È vero o no che per mettere fine o almeno scongiurare altri omicidi e altre stragi, dopo l’allarme lanciato dall’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi (marzo 1992) fior di ministri intervennero su fior di ufficiali dei carabinieri e poliziotti per “agganciare” l’ex Sindaco di Palermo, Vito Ciancimino? È vero o no che alla fine la trattativa produsse il mancato rinnovo di 328 decreti di 41bis (carcere duro) per altrettanti mafiosi? Tutta la ricostruzione ha l’aspetto di un teorema, di una indimostrabile verità fantasy. Basterebbe osservare come la richiesta di rinvio a giudizio abbia provocato un conflitto di attribuzione sollevato dal presidente Napolitano davanti alla Corte Costituzionale nei confronti dei Pm di Palermo; come la stessa Procura si sia spaccata (il capo ha timbrato ma non firmato il documento, un altro Pm si è sfilato in dissenso e soltanto uno dei promotori dell’iniziativa fa parte della Procura distrettuale antimafia); come il reato contestato (“attentato a un Corpo politico”) sia insolito e scivoloso, e l’intera vicenda condita dall’annuncio del magistrato Antonio Ingroia di voler partire per un lungo sabbatico di disimpegno e riflessione in… Guatemala.
C’è da credere, sulla base di queste poco incoraggianti premesse, che ancora una volta ci troveremo di fronte a uno spreco micidiale di danaro pubblico per una sentenza che difficilmente potrà condurre alla “verità”. Alla fine rischiamo di restare sommersi da una montagna di fango, una gigantesca cortina di fumo che avrà sortito i seguenti effetti: 1) la perdita ulteriore di credibilità del Paese sulla scena internazionale (la mafia fa sempre audience e se ministri dell’Interno e generali dei carabinieri sono già dati in pasto ai media, neppure di fronte a un giudizio o a una sentenza assolutori l’Italia potrà recuperare il danno d’immagine subìto; 2) il dolore dei familiari delle vittime sarà terribilmente ravvivato da dubbi, incertezza e confusione, senza che si sia avvicinata di un millimetro la verità sugli autori dei delitti; 3) la giustizia italiana avrà messo a segno un clamoroso insuccesso, l’ennesimo; 4) invece di compiacerci dei tanti colpi inferti a Cosa Nostra in questi anni, dovremo registrare veleni e divisioni tra magistratura, classe politica, forze dell’ordine e alte cariche dello Stato, quindi una vittoria dell’Anti-Stato.
Soprattutto, risulterà in tutta la sua drammatica evidenza l’unica verità di una giustizia che sarà stata (come è) incapace di individuare e condannare gli assassini di Paolo Borsellino, dopo tre processi in più gradi di giudizio in cui s’è dato credito a un finto pentito e sono stati mandati all’ergastolo degli innocenti. La morale potrebbe essere che i teoremi ammazzano la verità: chi ce l’ha già in mano, la verità, presume di non doverla cercare. Allora cambiasse mestiere.