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Insonnia, quando dormire è un sogno

I neurologi sono in grado di individuare le diverse tipologia, personalità e cause degli insonni. Per poter aiutarli a dormire bene

Se dormire equivale a varcare una porta lasciandosi il mondo alle spalle, c’è chi quella porta non riesce mai ad aprirla. Come Randolph Carter, il protagonista di un celebre racconto dell’orrore di P.H. Lovecraft, chi è insonne «ha perso la chiave dei sogni». Addormentarsi sarà, tutt’al più, un andirivieni sulla soglia, appisolandosi, risvegliandosi, tornando in un frustrante dormiveglia, riemergendo sempre più esasperati. Un incubo talmente diffuso che, se la digitate online, la parola «insonnia» appare sette milioni di volte (e più di 73 milioni se la scrivete in inglese, insomnia).

Nell’offerta di rimedi per garantirsi il sonno, c’è di tutto: soluzioni naturali, integratori speciali, cuscini «intelligenti», materassi interattivi, esercizi di mindfullness, consigli nutrizionali, cd con musiche soporifere. Funzioneranno? Mah. L’insonne, del resto, è talmente spaventato dall’idea di un’altra notte bianca che spesso è la sua stessa paura ad alimentare il disturbo. Capire che cosa si inceppa nel meccanismo del sonno non è così semplice. Solo di recente il sonno ha svelato i suoi segreti alla scienza. A che serve dormire, per esempio? A riposare, direte voi. Ecco, no. Non proprio. Il corpo potrebbe riposarsi benissimo anche da sveglio, e il cervello, nelle fasi del sonno, è tutt’altro che spento. E allora? Perché a un certo momento ci si disconnette?

«Dal punto di vista cerebrale il sonno corrisponde all’attivazione di network inattivi durante la veglia: mentre si dorme, il cervello rimaneggia le connessioni tra le cellule nervose, contribuendo all’apprendimento e alla memoria» dice Giuseppe Plazzi, neurologo e direttore del Centro per la cura dei disturbi del sonno di Bologna (e autore del saggio I tre fratelli che non dormivano mai, in uscita il 7 marzo per Il Saggiatore). Aggiunge Mauro Colangelo, specialista in neurologia e neurochirurgia: «L’ipotesi più accreditata è che durante il sonno il cervello faccia “pulizia”, ossia smaltisca i prodotti di scarto accumulati durante il giorno». Tra gli scarti ci sono alcune proteine come la betamiloide, il cui accumulo nel cervello è legato all’Alzheimer. «È una funzione di “rigoverno” che non può essere fatta durante la veglia perché richiede grande dispendio di energia. Motivo per cui il cervello la svolge di notte».

L’insonne, si potrebbe dire, ha un cervello disordinato, pieno di «rifiuti» inutili e potenzialmente dannosi. E ne risente anche la memoria, se è vero (e lo è) che dormire consolida i ricordi. Quando si dorme, dopo 90-100 minuti di fase non rem, arriva il sonno rem, circa 15 minuti, in cui si sogna e si consolida ciò che si è appreso di giorno.Cinque stadi che si ripetono durante la notte. E quando la coscienza resta accesa, viene a mancare l’intera architettura del sonno. L’insonnia però non è tutta uguale. C’è quella iniziale, di chi fatica ad addormentarsi, quella intermittente di chi si sveglia più volte, quella terminale di chi si sveglia precocemente e non riesce più a riaddormentarsi. Ogni insonne non dorme a modo suo. E finché le sue ragioni restano irrisolte, difficile venirne a capo.

Non solo: un studio di neuroscienziati olandesi ha appena individuato, dentro questa divisione principale, altri cinque sottogruppi di personalità di insonni (vedere scheda in questa pagina) a seconda del grado di nevrosi, ansia, apatia, depressione, reazione allo stress. Il risultato permetterà di capire, di caso in caso, se agire con i farmaci, magari un antidepressivo, o con una terapia psicologica. I farmaci, appunto. Chi non dorme, dopo aver svuotato boccette di valeriana e flaconcini di melatonina, passa alle famose «goccine». Spesso in regime di sconsolata autogestione: 10 quando si spegne la luce, 20 quando ci si risveglia, oppure 30 subito, anzi no, meglio dopo un’ora che ci si gira nel letto. E così via. Le goccine diventano l’unico modo per sperare di chiudere occhio. Ma quanto si può andare avanti facendole scendere, una dopo l’altra, nel bicchiere? «Le benzodiazepine hanno soppiantato, dagli anni 70, i vecchi barbiturici. Sono abbastanza efficaci ma inducono tolleranza e dipendenza» spiega Colangelo. «Cioè occorre prenderne sempre di più per avere la stessa azione. E c’è l’effetto rebound: quando si sospendono, si cade in un’insonnia peggiore».

Meglio sono i «farmaci zeta», così chiamati per la loro iniziale (Zolpidem, Zopiclone, Zaleplon), ipnoinducenti non benzodiazepinici che non danno sintomi di astinenza quando si smette di prenderli. Anche in questo caso, vanno bene quando l’insonnia è in una fase iniziale per spezzare subito un pericoloso circuito: sto per coricarmi, spero di dormire, mi agito nell’attesa, non mi addormento perché sono troppo agitato. Poi vanno progressivamente eliminati.

«La terapia farmacologica è necessaria in circa il 70 per cento dei casi proprio per interrompere la triade coricamento-allertamento-insonnia ed evitare di cronicizzare il disturbo» conferma Luigi Ferini Strambi, primario del Centro di medicina del Sonno dell’ospedale San Raffaele di Milano (e Past-President dell’Associazione Mondiale di Medicina del Sonno).  Ma dal momento che la pillola magica che regala un sonno duraturo senza effetti collaterali ancora non esiste (non che l’industria non ci stia lavorando, sarebbe un mercato miliardario), l’insonnia va sconfitta con altri armi. Per esempio affidandosi a uno dei tanti Centri del sonno, una quarantina in Italia. Quello del San Raffaele ha la casistica più elevata, circa 6 mila pazienti l’anno.

«Nel 70 per cento dei casi riusciamo a stabilire una diagnosi con la visita, nel 30 per cento servono altri accertamenti» spiega Ferini Strambi. L’insonnia iniziale, di chi non riesce ad addormentarsi, è in genere legata all’ansia; quella terminale, di chi apre gli occhi troppo presto, alla depressione. La più sfuggente è l’insonnia intermedia, il sonno frantumato da frequenti risvegli. Ed è la più indagata, insieme a quella farmaco-resistente, inscalfibile di fronte a 4-5 farmaci diversi. «Nei casi ostinati, il paziente resta nel Centro per un breve ricovero, in modo da monitorare il suo sonno in laboratorio, con video ed elettrodi, e anche le sue abitudini diurne, che possono incidere sul riposo notturno» continua lo specialista. «Il trattamento di prima scelta, al di là dell’intervento con i farmaci, è la terapia cognitivo-comportamentale: un incontro la settimana, in gruppo, per 7 settimane. Ed è efficace, anche a distanza di anni. Mentre con i farmaci è facile la ricaduta».

Ma esiste un identikit dell’insonne, o è un tormento trasversale? «Fino a pochi anni fa» risponde Ferini Strambi «i pazienti erano soprattutto donne sui 45-50 anni, oggi vediamo molti giovani che, avendo uno stile di vita abbastanza anarchico, finiscono per accumulare un debito di sonno che poi si trascina a lungo». Il debito di sonno non è prerogativa dei giovani o degli insonni cronici, in ogni caso. Riguarda un po’ tutti noi, trascinati da ritmi di vita dove il sonno diventa un elastico che si può allungare o restringere a piacere (e spesso è più corto di quanto dovrebbe). Restii a staccarci da smarphone, tablet e pc, non ci rendiamo che la luce degli schermi protratta fino all’ultimo è la cosa che meno favorisce l’addormentamento. D’accordo, non tutti hanno bisogno di 8 ore per notte. I «dormitori corti» se la cavano con sei-sette ore. Ma sono eccezioni. E non è un’idea furba neppure recuperare un’ora durante il giorno (chi può farlo) o farsi maratone sul cuscino nei weekend.

Gi esperti tutt’al più consigliano 20 minuti di riposo nel pomeriggio, e in poltrona, non a letto. Per quanto la routine possa apparire concetto impiegatizio, rispettare sempre gli stessi orari per coricarsi e alzarsi è la prima regola per guadagnarsi un sonno degno di questo nome. E se di notte capita di svegliarsi, piuttosto che cercare ostinatamente di riaddormentarsi, conviene alzarsi e fare altro. Evitare il frigo (non è colpa vostra, un sonno ridotto o di cattiva qualità aumenta la produzione di grelina, ormone dell’appetito, ma sapendolo ci si può controllare).

Un libro, di carta naturalmente, è una strategia migliore. Pagina dopo pagina, sarà più facile allontanarsi dall’anticamera della veglia e ritrovare, finalmente, «la chiave dei sogni».
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Daniela Mattalia