lampedusa anniversario 10 anni
Una foto di Lampedusa, dieci anni fa (Ansa)
Politica

Una Repubblica fondata sulla retorica da un'onda di cattiva retorica

Come Eravamo

Da Panorama del 23 ottobre 2013


Ce li ricorderemo i morti di Lampedusa. E non solo per la tragedia immane, ma anche per il diluvio di retorica politica e giornalistica che ha scandito i giorni successivi alla strage. Ultimo tocco: i funerali di Stato che il primo ministro Enrico Letta ha decretato per gli annegati.

Già: se fossero sbarcati, ai sensi della legge Bossi-Fini, li avremmo indagati per il reato di immigrazione clandestina, com’è successo ai 155 sopravvissuti. Ma, avendo avuto la fortuna di morire, invece di un avviso di garanzia si sono guadagnati una bella commemorazione ufficiale. Allora cambiamo la Bossi-Fini? «Certo, siam già pronti, è cosa fatta».

Come al solito, questioni che attendono da anni di essere ripensate con rigore e serietà luccicano per un attimo nella commozione in diretta a favore delle telecamere. Poi tutto finisce con un post di Beppe Grillo, si spengono le luci e buonasera. La retorica era piovuta a catinelle già su un’altra tragedia del mare, quando l’operazione di recupero della Costa Concordia è stata trasformata in evento epocale, in impresa mirabile e poetica. Con Roberto Saviano in prima fila, a straparlare di «un impronunciabile sogno da subcosciente: se si raddrizza la nave, simbolo di un Paese alla deriva che lentamente affonda, c’è speranza magari che si raddrizzi l’Italia e che torni a galleggiare».

E come no? Infatti la Costa l’hanno raddrizzata per mandarla alla rottamazione. Non si sa che cosa significhi, in savianese, «impronunciabile sogno da subcosciente». Ma anche il caso della Costa Concordia dimostra come gli italiani siano sempre più soggetti a ubriacature di cattiva retorica (quella buona, ormai, non la sa praticare più nessuno). Siamo un Paese con molte pezze al sedere ma continuiamo a rappresentarci, con il piglio giulivo di un Candido volterriano, come il migliore dei mondi possibili. Per pigrizia, per opportunismo, per habitus mentale ormai consolidato. Il governo Monti fa riforme a casaccio, esibendo alcuni tra i ministri più pasticcioni della storia della Repubblica, ma i quotidiani sviolinano per mesi sulla mirabile stagione dei tecnici, sui bocconiani in loden che riscattano l’onore del Paese.

Finito questo concertino, è iniziato l’elogio di Enrico Letta: un governo nato per tirare a campare è diventato emblema di stabilità, pacificazione nazionale e tante altre belle parole. Facciamo quello che ordinano Angela Merkel e i banchieri tedeschi, ma diciamo che «ce lo chiede l’Europa», come se esistesse davvero questa mamma Europa a cui portiamo devotamente i nostri doni affettuosi («È l’Europa che ce lo chiede!». Falso! è anche il titolo di un manuale di critica della retorica europeista, scritto da Luciano Canfora per la Laterza, che bisognerebbe adottare nelle scuole).

Non siamo capaci di aggiustare il museo di Reggio Calabria e di rimettere in piedi i Bronzi di Riace (forse a inizio 2014, promette ora il ministro Massimo Bray: vedremo). Però suoniamo ogni giorno i pifferi sulla cultura e sulla bellezza come valori supremi.

Ci sdilinquiamo per la nomina a senatori a vita di Claudio Abbado e di Carlo Rubbia e poi mandiamo i nostri dottori di ricerca a fare i camerieri. Teniamo gli immigrati clandestini segregati in centri d’accoglienza fatiscenti e sovraffollati ma facciamo sciccosissimi défilé antirazzismo con tutti i divi dello sport, i paparazzi al seguito e il ministro Cécile Kyenge in prima fila. L’Ansa, qualche giorno fa, lanciando la notizia su un senegalese picchiato da alcuni sciagurati al grido di «sporco negro», ha censurato la parola negro scrivendo «neg...», con i puntini di sospensione. Un senegalese illustre, il poeta Leopold Senghor, cantore appassionato della negritudine, sarebbe rimasto sbalordito nel vedere negro trattato alla stregua di una parolaccia.

Ma questo è il Paese in cui puoi consegnare i senegalesi in mano alla ’ndrangheta (vedi Rosarno) ma non puoi scrivere negro sul giornale.

C’è una scissione tra forma e sostanza. Ma, spesso, più si è parolai più si offre l’illusione di essere pragmatici, attenti ai fatti, esibendo magari un linguaggio colloquiale e giovanilistico. È ormai lo stile comunicativo di molti politici (oggi, per esempio, di Matteo Renzi) che ti fa venire una nostalgia irrefrenabile per le «convergenze parallele» di Aldo Moro. E che dire della nuova retorica femminilista? Nei giorni di Ferragosto i giornali titolavano più o meno così: «Allarme femminicidio. Secondo i dati del Viminale, un terzo delle vittime di omicidio è donna». Ma questo non significherà allora che, al netto dei transessuali, gli altri due terzi sono maschi? Se poi uno va a leggere il rapporto Eures-Ansa 2013 sulla criminalità, vi trova che, rispetto al 2011, sono calati del 10,3 per cento gli omicidi in famiglia, mentre sono aumentati del 25,8 per cento quelli legati alla criminalità organizzata. Vi pare che qualche giornale abbia titolato: «Allarme criminalità organizzata»? No, ovviamente. La mafia non fa notizia, a meno che non la racconti Roberto Saviano in forma di fogliettone. E così Laura Boldrini ci racconta che l’emergenza è il femminicidio. E dice pure che quando Beppe Grillo la chiama «oggetto di arredamento del potere» sta «offendendo tutte le donne». Ma perché? Qualcuno ha mai definito Nilde Iotti un arredo? E, viceversa, Iotti ha mai denunciato complotti antifemminili, quando il giornalista Roberto Farina, con ineleganza, la bollava come «la Claretta Petacci di Togliatti»? «Ei dice cose e voi dite parole» scriveva nelle sue Rime Francesco Berni, difendendo lo stile asciutto e severo delle poesie di Michelangelo. Non sarebbe male, prima o poi, tornare anche noi a dire cose.

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Giorgio Ieranò