Usa e Cina, la grande sfida per il Pacifico
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Usa e Cina, la grande sfida per il Pacifico

La provocazione dei B-52 americani che sorvolano le isole contese tra Cina e Giappone, è solo un episodio della sfida del XXI secolo per il controllo del mercato asiatico

per LookOut News

Dopo solo un giorno che era stato portato a casa l’accordo “storico” con l’Iran, gli Stati Uniti non hanno perso tempo e il Pentagono ha fatto alzare in volo alcuni B-52, quegli enormi e spettacolari bombardieri americani, che hanno sorvolato il Pacifico nella zona di “identificazione per la difesa aerea”, ovvero lo spazio creato unilateralmente dalla Cina nell’area che comprende le isole Senkaku-Diaoyu, come noto aspramente contese dal Giappone.

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La Cina, per bocca del suo ministro della Difesa, ha detto di aver monitorato il volo di almeno due bombardieri che volteggiavano sopra quello che Pechino considera già il proprio spazio aereo. Mentre il Pentagono ha poi fatto sapere che quei bombardieri erano disarmati. Dunque, si è trattato soltanto di una provocazione, un’azione dimostrativa volta a ricordare alla Cina che l’America forse non sarà più il poliziotto del mondo, che avrà pure fatto una magra figura in Medio Oriente, ma resta assai determinata nel perseguimento degli obiettivi che ritiene strategici. Come il controllo del Pacifico, ad esempio.

E, del resto, la violazione dello spazio aereo cinese - se così si vuol dire - era stata in precedenza annunciata dallo stesso segretario alla Difesa di Washington, Chuck Hagel, il quale in un secco comunicato avvertiva: “L’annuncio cinese non cambierà in alcun modo le operazioni militari americane nella regione”, ovvero le esercitazioni congiunte con il Giappone che hanno luogo questa settimana. La provocazione, insomma, non giunge inaspettata e, anzi, ci si doveva attendere la presenza americana nell’area.

Gli USA tra successi e insuccessi

Ad aver ridato nuovo vigore agli Stati Uniti, è stato certamente “Ginevra 2”, l’unico successo collezionato dagli USA negli ultimi mesi e di cui l’Amministrazione Obama si vanta già. L’accordo svizzero tra Iran e il 5+1 ha, infatti, consentito di tracciare una linea precisa sull’arricchimento dell’uranio di Teheran che, in cambio dell’accettazione delle regole di Washington, per Natale riceverà un allentamento delle sanzioni, per un valore di circa 7 miliardi di dollari.

Eppure l’accordo raggiunto a Ginevra pare ammantato di eccessiva retorica: è ancora troppo presto per cantar vittoria, visto che il vero patto non sarà stipulato prima di sei mesi, giusto in tempo per vedere sia quel che accadrà in Siria (dove i ribelli hanno già rispedito al mittente il cessate-il-fuoco, che intendeva dare più margini di manovra alla diplomazia) sia le reazioni di Israele e Arabia Saudita, la strana coppia che non gradisce affatto il disimpegno americano e che teme l’Iran più d’ogni altra cosa.

Ieri, alcune testate giornalistiche nordamericane riportavano i retroscena secondo cui l’accordo raggiunto tra Washington e Teheran era in realtà il capitolo finale di lunghe trattative segrete, di cui erano stati lasciati all’oscuro gli alleati dell’una e dell’altra parte. In proposito, l’Associated Press riferiva addirittura che le negoziazioni segrete erano andate avanti almeno dal marzo scorso (immaginarsi il giudizio di Israele sull’operato del loro grande alleato). In quest’ottica, i media vorrebbero spiegare anche il mancato attacco alla Siria di Assad, fedele amico di Teheran.

La strategia americana del “pivot to Asia”

Ma questa tesi non appare del tutto convincente. Certo, a leggerla con gli occhi della geopolitica, gli Stati Uniti sembrano davvero voler depotenziare la loro presenza in Medio Oriente, e per molteplici ragioni: è un territorio estremamente difficile da gestire, è un’area sempre meno influente per il fabbisogno energetico statunitense e ormai non rappresenta un mercato di riferimento, se non per il commercio di armi. Così, ecco che all’Egitto non viene più staccato l’assegno miliardario su cui faceva affidamento Il Cairo, ecco che la Libia viene lasciata in mano a britannici e francesi, ecco che la Siria può essere lasciata ad autodistruggersi.

Mentre, invece, spostandoci nel Pacifico, osserviamo che il Giappone, Paese amico, è ancora un mercato fondamentale per gli Stati Uniti, così come la Sud Corea, altro Paese amico, è il contraltare tecnologico statunitense e un mercato altrettanto recettivo. Inoltre, circa il mercato energetico, le riserve di shale gas - la nuova frontiera che nel prossimo futuro potrebbe consentire agli USA il dominio energetico mondiale - si stima che enormi giacimenti di gas da scisti siano proprio a largo delle isole contese e lungo un’area che intercetta gran parte della costa del continente asiatico. Insomma, le sirene dell’Oceano Pacifico sembrano ammaliare Washington in maniera crescente. È quella che chiamano “pivot to Asia”, la strategia volta a controbilanciare l’ascesa della Cina in Estremo Oriente.

Qualcosa non torna

Basta tutto ciò a spiegare la politica estera a stelle e strisce? Non stona, ad esempio, l'assenza del presidente americano Barack Obama al summit APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) di ottobre, che ha lasciato a Pechino la parte del leone e che ha rimandato i lavori per l’allargamento della Trans-Pacific Partnership (TPP), ovvero l’intesa di libero scambio Asia-America, proposta proprio dagli Stati Uniti? Certo, c’era lo shutdown in patria, ma intanto l’occasione è andata perduta.

Le trattative per allargare la Trans-Pacific Partnership si protraggono da anni, coinvolgendo oltre a Giappone e Vietnam, anche Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore e altre nazioni. Insieme, dovrebbero costituire un’area di scambi che rappresenta circa 800 milioni di persone, ovvero un terzo degli scambi commerciali globali e quasi il 40% dell’economia mondiale. Qualcosa di più si capirà forse dall’appuntamento del 3 dicembre a Bali, in occasione dei lavori dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

In conclusione, dunque, se vogliamo credere alla teoria economica, le alleanze del XXI secolo si vanno formando per lo più sulle nuove rotte degli scambi commerciali: da una parte, il libero scambio Asia-America a cui lavorano appunto agli Stati Uniti, insieme al libero scambio America-Europa; dall’altra il progetto antagonista perseguito dalla rivale Russia, che desidera invece legare a sé l’Unione Europea in quell’area di scambio che ormai chiamiamo con il fortunato termine ottocentesco di Eurasia.

In tutto ciò, non sembra esservi più spazio per la politica tout court. Ma puntare tutto sul Pacifico guardando unicamente all’aspetto economico, pagherà? Stando così le cose, si è portati a credere che il soft power cinese sia ancora oggi più convincente di quello americano, abituato allo strong power. Intanto, la Cina corre al riarmo.

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Luciano Tirinnanzi