Il Corriere della Sera e il futuro incerto
Economia

Il Corriere della Sera e il futuro incerto

Dopo il no di Giuseppe Rotelli all'aumento di capitale di Rcs, si aprono le scommesse su cosa succederà al gruppo editoriale. Che per ora sta comprando tempo

Come se Orfeo avesse abbandonato Euridice, o Catullo si fosse stufato di Lesbia. Giuseppe Rotelli è stato innamorato per almeno dieci anni della Rcs, e in particolare del suo gioiello, il Corriere della Sera. La notizia diffusa ieri, secondo cui il giurista cui fa capo il più grande ed efficiente gruppo di sanità privata italiano si chiama fuori dalla ricapitalizzazione del colosso editoriale, a questa causa non ci crede più. Avrebbe i soldi per seguire la sua parte di aumento di capitale: o glieli presterebbero le banche con cui ha sempre lavorato ottimamente. Da imprenditore ottimista qual è, è anche possibile che sia aperto a credere in un possibile futuro migliore del gruppo editoriale milanese (è possibile, non certo). Ma se ha deciso di non sottoscrivere la quota di sua competenza dell'aumento di capitale da 421 milioni in esecuzione da ieri in Borsa, vuol proprio dire che la compagnia non gli va più a genio.

La sua pur solidale Mediobanca l'ha in fondo tenuto sempre ai margini del patto di sindacato, gli altri “soci forti”, cioè poi, sostanzialmente, la Fiat, idem. Il suo amico Della Valle ha preso di mira le strategie degli azionisti di riferimento e severamente criticato anche la ricapitalizzazione in corso: perchè mai, in fondo, Rotelli avrebbe dovuto nuovamente rilanciare?

Certo, l'avventura in Rcs è stata un bagno di sangue per lui come per Della Valle e gli altri che entrarono nell'ennesima, sciagurata operazione “di sistema” architettata nel 2005 da Mediobanca e da Banca Intesa per rimpiazzare nell'azionariato Rcs i “furbetti del quartierino” che ne avevano goffamente tentato la scalata mentre attorno a loro fioccavano gli avvisi di garanzia e le perquisizioni della Guardia di Finanza. Per loro, il brivido del potere mediatico, l'emozione da “Citizen Kane” allo zafferano è costata carissima. Soprattutto perchè, se è vero che brand celeberrimi e autorevoli come il Corriere e tante altre testate certamente avranno un futuro, nessuno finora nel mondo ha davvero capito (e dimostrato di aver capito) in che modo, e con quali perdite sul campo, la carta stampata potrà travasare il suo valore nell'era del digitale. Figuriamoci se l'abbiamo capito in Italia.

Delusione e disaffezione, quindi, ma né problemi finanziari né personali, dietro la scelta comunicata ieri da Rotelli: non intende “esercitare i diritti di opzione per le azioni detenute da Pandette, nonché per quelle oggetto del contratto di opzione di acquisto e di vendita stipulato con Banco Popolare Società Cooperativa". Un totale che arriva al 19,6% del capitale. Un wright-off che per l'imprenditore sanitario significherà ridurre il proprio peso nel capitale post-aumento alla quota minima del 4,15%.

Cosa accadrà a questo punto alla Rcs? Nell'immediato, niente che cambi il quadro noto. L'aumento in corso è garantito per il 90% (389 milioni) dal consorzio e dai soci sindacati, con un particolare impegno di Mediobanca e di Fiat, entrambe segretamente seccatissime della sgradita incombenza ma in qualche modo costrette dalla storia a accollarsela. Forse la Fiat non esclude in futuro di trovare sinergie tra la Rcs e la sua Editrice La Stampa, ma è un'illazione che si auto-alimenta da dieci anni, perchè il buon senso la suggerisce, ma non ha mai trovato alcuna conferma pratica, neanche sul piano delle possibili (ed editorialmente neutrali) sinergie sul fronte della raccolta pubblicitaria...niente di strano, è una tipica follia da ex “salotto buono”.

Non si sa cosa farà Diego Della Valle: se cioè, dopo aver votato contro la ricapitalizzazione nell'assemblea del 30 maggio, deciderà di mantenere il suo 8,7% e anzi salire nel capitale comprando diritti altrui o a sua volta mollare. Ma ai più, la cosa appare improbabile.

A questo punto, postulando il buon esito della ricapitalizzazione in corso, il nuovo vertice di Rcs, e cioè il presidente Angelo Provasoli e l'amministratore delegato Pietro Scotto Jovane, possono dire di aver “comprato tempo”, oltre ad aver ottemperato a un obbligo civilistico. Però, quanto lontano nel tempo il gruppo possa essere portato dalla pur cospicua trasfusione finanziaria che i soci stanno facendo, non lo sa nessuno: dipende anche e soprattutto dalla durissima crisi congiunturale in atto, che imperversa con estrema crudeltà sul settore editoriale tradizionale e sul business della pubblicità. Un problema che vale per tutti gli attori del settore, in Italia come all'estero, chi più chi meno, ma nessuno estraneo al salasso.

Certo, un gruppo come la Rcs, che a dispetto delle tante, eccellenti professionalità che lo popolano, è stato afflitto negli ultimi trent'anni da un azionariato rissoso e arrocato sui veti incrociati come potrebbe esserlo un condominio di bisbetici, ha lavorato nelle peggiori condizioni. Unica, magrissima consolazione: a fronte dei sacrifici - in atto e in prospettiva – sulla pelle di tanti dipendenti che hanno comunque fatto bene il loro lavoro, anche i “padroni”, stavolta, ci stanno rimettendo un occhio della testa. Meno degli altri alcuni banchieri, non imprenditori in proprio ma gestori di soldi altrui, che con questi soldi hanno giocato, per anni, all'”apprendista stregone”, in un malinteso spirito “di sistema”: ma è solo questione di tempo, il mercato s'incaricherà di far pareggiare, alla fine, i conti di tutti.

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Sergio Luciano