Censis, governo e popolo separati in casa
Economia

Censis, governo e popolo separati in casa

L’Italia che resiste vende oro e preziosi (2,5 milioni di famiglie nell’ultimo biennio), mobili e opere d’arte (300 mila famiglie), taglia i consumi (l’85% elimina sprechi ed eccessi), va nei centri commerciali (che non hanno mai ridotto le vendite) o …Leggi tutto

L’Italia che resiste vende oro e preziosi (2,5 milioni di famiglie nell’ultimo biennio), mobili e opere d’arte (300 mila famiglie), taglia i consumi (l’85% elimina sprechi ed eccessi), va nei centri commerciali (che non hanno mai ridotto le vendite) o si rivolge ai gruppi d’acquisto (che vivono un vero e proprio boom); trasforma la seconda casa in bed & breakfast; lascia l’auto e compra bici  (3,5 milioni vendite in due anni); si fa lo yogurt in casa o coltiva ortaggi in giardino. L’Italia che reagisce manda i figli all’istituto tecnico o li iscrive in facoltà che hanno uno sbocco professionale. L’Italia che si “riposiziona” sposta all’estero le imprese non per risparmiare sui salari, ma per conquistare i mercati (i flussi di merci e di aziende verso le aree extra euro sono in aumento). Le scuole aumentano gli scambi internazionali (il 68% in media, più al sud che al nord). I giovani non comprano i giornali, ma stanno attaccati a internet  (ormai siamo al 90%).

Sì, l’Italia è entrata nella fase della restanza, neologismo creato togliendo il si da resistenza anzi da résistance, perché l’idea Giuseppe De Rita l’ha presa dal filosofo francese Jacques Derrida il teorico del decostruttivismo. E’ la parola chiave di quest’anno nel quale è stata assolutamente centrale la sopravvivenza. Questo atteggiamento è nello stesso tempo segnale di vitalità, ma anche la dimostrazione che la società risponde come può, con un processo adattivo, alla mancanza di una meta condivisa.

Il rapporto del Censis ci dà come sempre un’immagine del paese visto dal basso, dai suoi interstizi, dai suoi gangli socio-economici. Ma negli ultimi tempi si proietta sempre più verso l’alto, verso la politica. Prima ha dichiarato la fine del ciclo spontaneista (interpretato fino in fondo da Silvio Berlusconi). Adesso individua il pericolo maggiore nella divaricazione tra governo e popolo. Ecco le sue parole: “Non è scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo; ed è rimasto in campo un rigore di governo, spesso solo disciplinare, che non ha lo spessore per diventare “Legge”, cioè riferimento forte per generare forza psichica collettiva”.

Per la prima volta in questo 2012 si è sentita la crisi, ed è stato un colpo durissimo e improvviso: “La realtà si è rivelata così perfida da imporci una radicale rottura di schema interpretativo. Ci siamo trovati dentro processi non padroneggiabili e in parte neppure comprensibili”, scrive De Rita nelle sue considerazioni generali. E l’esigenza di affrontarli subito, di decidere immediatamente, di “dimostrare ai mercati una forte capacità di concentrazione mentale e operativa”, ha accentuato la distanza tra i soggetti politici e sociali che ormai vivono come “separati in casa”.

De Rita non ama il governo dei “tecnici senza tecnicalità” come li ha definiti. Durante la primavera ha dedicato i suoi seminari alla perdita di sovranità, dall’alto e dal basso perché non è solo colpa dell’euro o della Germania, ma del fatto molto semplice che chi è indebitato non è padrone delle proprie risorse. Quindi, c’è poco da fare, per riprenderci la sovranità dobbiamo restare solvibili, tornare a crescere e ridurre il fardello che i decenni passati hanno gettato sulle nostre spalle. Ma c’è modo e modo. De Rita evoca la Bibbia, cita Ezechiele: “pastori che pascolano se stessi” sono gli esponenti di una classe politica che l’opinione pubblica valuta sostanzialmente come negativa. Il fondatore del Censis ricorda il 1992 con il governo Amato, il ’94 con Ciampi, il ’98 con la tassa per l’euro di Vincenzo Visco. Ebbene anche quelle erano stangate, e durissime, ma allora si è cercato di ascoltare la società, oggi c’è il mito della decisione dimenticando il resto. Invece, i due mondi vanno fatti parlare. Quanto può durare questa dicotomia?

Ad allargare la forbice ha contribuito in modo determinante “il collasso del ceto medio”. E’ questa la base socio-economica di un fenomeno molto complesso che non può essere interpretato solo con le statistiche. Ma certo colpisce che “nel giro di vent’anni la quota di famiglie con una ricchezza netta superiore a 500 mila euro è praticamente raddoppiata, passando dal 6 al 12,5 per cento e lo stesso ha fatto la ricchezza complessiva detenuta dallo stesso segmento di famiglie (dal 30,8 al 50,6 per cento)”. Contemporaneamente, la ricchezza complessiva delle famiglie con un patrimonio oscillante, tra beni mobili e immobili, tra i 50 e 500 mila euro, ha visto la propria ricchezza perdere 18 punti percentuali. In sostanza, non c’è stata la proletarizzazione della quale va di modo parlare, piuttosto, una frattura: la fascia alta dei ceti medi è salita ancora più su, il resto è regredito. Dunque sono aumentati i Suv e in media il parco macchine è rimasto vecchio e arrugginito. Sono pieni i voli per Miami, però la maggioranza trascorre una settimana al mare vicino casa.

Il paese, insomma, è diviso verticalmente e orizzontalmente. Si spezza il suo rapporto con la rappresentanza politica, culturale, ideologica. E si frantuma il cemento che aveva tenuto insieme quel “corpaccione” centrale al quale proprio il Censis ha dedicato per tanti anni le sue analisi tutto sommato ottimistiche sulla capacità di tenuta, di trasformazione, di metamorfosi degli italiani.

Se volessimo dedurre una ricetta dall’allarmata diagnosi, potremmo dire che in cima all’agenda per la prossima legislatura, c’è il bisogno di colmare il fossato tra governo e popolo e di mettere mano al collante. Non per appiccicare quel che non può più stare insieme (la crisi non passa invano e da questo punto di vista De Rita è un evoluzionista), ma per legare il nuovo che emerge sia pure a fatica, dargli un senso, una direzione di marcia, orientare la sua spontaneità. E la chiave di volta, volendo interpretare le volute analitiche un po’ barocche tipiche del Censis, sta nel cercare il consenso su scelte che per molti versi sono obbligate. La medicina resta amara, ma un po’ di zucchero aiuta.

 

 

 

 

 

 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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