Bernard Fornas, l’importanza di chiamarsi Cartier
Economia

Bernard Fornas, l’importanza di chiamarsi Cartier

La casa di gioielli più famosa al mondo, in barba alla crisi, apre una megaboutique nel centro di Milano

Se «il bello non ha confini» come sostengono Platone, Hilmann e Bernard Fornas, sono i numeri a fare la storia. E i numeri parlano tutti a favore del presidente, amministratore delegato e spirito guida di Cartier che nell’ultimo quinquennio sui mercati asiatici ha registrato un aumento del 120 per cento delle vendite, rispetto al 27 per cento in Europa. «Non bisogna avere fretta» sorride Fornas «perché nella vita il vero valore dura e cresce nel tempo. Abbiamo atteso per avere una boutique all’altezza di Milano. Abbiamo cercato il palazzo giusto, che combinasse i nostri valori con quelli di questa straordinaria città. Nessuna ipotesi ci sembrava adeguata. E sa perché? Perché la soluzione era la più semplice: lo stesso palazzo, tutto però. Una boutique all’altezza delle nuove sfide globali di Cartier e dello standing della Milano del XXI secolo».

Secondo Jon Cox, senior analyst alla Kepler Capital Markets, Fornas è stato la pietra miliare nella costruzione non solo dei successi, ma soprattutto del mito mondiale di Cartier nell’ultima decade. Ma le truppe di turisti del lusso, soprattutto cinesi e russi, che anche quest’anno orribile hanno affollato la boutique di Milano non bastano a spiegare il successo globale del più redditizio dei marchi Richemont. «Crisi?». Fornas scuote la testa. «In Cartier abbiamo un altro modello, interpretativo e operativo, che ci ha permesso di consolidarci come il primo operatore del lusso sui mercati asiatici, russi, cinesi, africani, europei, sudamericani e il secondo negli Stati Uniti. Se c’è crisi in Italia e Spagna, i mercati vanno a gonfie vele in Indonesia e in Cina. E quando dovesse andare male in Brasile ci sarà senz’altro crescita in Russia e Giappone. Semplice, no?».

Dopo un po’ l’architettura mentale di Formas appare in tutta la sua evidenza. Solo un dato resta in ombra, il colonialismo estetico. «Nessuna imposizione culturale. Al contrario, perché Cartier non fa prodotti specifici per mercati specifici: mai. Noi diamo forma all’idea del lusso, all’archetipo del bello, perché siamo convinti che il bello non abbia confini. Dunque che sia democratico per definizione». E l’eleganza francese, allora? E lo stile europeo? «La forma assoluta del bello. In cui ogni spirito si può riconoscere. Da Vancouver a Singapore».

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Walter Mariotti