Il programma di Obama? Fatti, non parole
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Il programma di Obama? Fatti, non parole

Nel discorso di insediamento niente di memorabile, ma l'onestà e la concretezza di un vero leader americano

L’umiltà dell’orgoglio americano. Sì, questa è la formula nella quale si potrebbe sintetizzare il discorso del giuramento di Barack Obama che dà ufficialmente inizio al suo secondo mandato di Presidente degli Stati Uniti d’America. L’umiltà e l’orgoglio della frase-motto che non a caso è tra quelle rilanciate dal sito della White House: “We must act, knowing that our work will be imperfect”. Dobbiamo agire, sapendo che il nostro lavoro sarà imperfetto. Espressione che ne implica un’altra: per preservare la libertà di ciascuno, “bisogna agire insieme”. Uno solo non basta. Neanche fosse l’uomo più potente del pianeta. Occorre un’azione collettiva a favore dei più deboli, dei “diseguali di fronte alla legge”. Perché abbiano le stesse opportunità, le stesse garanzie, sotto lo stesso cielo.

Un discorso centrato sui diritti civili, sulla speranza di un’America conscia di avere “tutte le possibilità”; un discorso nel quale non compare la parola tanto europea “solidarietà”, sostituita da quella più anglosassone ma non per questo meno generosa, “fair play”. Vicina ma non coincidente con la nostra “equità”. Obama è intenso e convincente (anche se la figlia minore si concede uno sbadiglio in diretta) quando si accalora (“una nazione, un popolo”), poi quando dice che bisogna calare nell’oggi l’insegnamento dei padri fondatori. Che è l’altro messaggio forte. Agire è fondamentale. Non servono i dibattiti senza fine. Per procedere in questo “viaggio infinito”, in realtà cominciato per la nazione americana poco più di due secoli or sono, bisogna affrontare una “crisi che non è conclusa”, con passione e impegno. E avere il coraggio di cambiare. Adeguarsi. Lavorare. Non abbattersi.

Diritti e pragmatismo.

Obama esordisce citando la Costituzione, la sua “forza durevole”. Ricorda che “ciò che lega la nazione non è il colore della nostra pelle, le nostre fedi o le origini dei nostri nomi, ciò che ci rende eccezionali, ciò che ci rende americani, è l’idea che siamo stati creati uguali dal creatore… La libertà è un dono di Dio”, che però sono gli uomini a dover preservare.  La libertà va garantita soprattutto a quelli che ne soffrono di più la mancanza. Vanno tutelati in concreto i diritti inalienabili: libertà, vita e ricerca della felicità.

Parole? No. Una promessa. Un programma: “Ho l’orgoglio di finire quello che ho iniziato”. Obama parla dei diritti dei gay, nostri fratelli e sorelle, a esser trattati da eguali davanti alla legge. Parla di lotta al cambiamento climatico. Di diversità, apertura mentale, capacità americana di rischiare e reinventarsi. Di garanzia per gli studenti brillanti di sviluppare appieno le loro potenzialità. Di benessere che poggia sulle “spalle larghe” e sul lavoro della classe media. Della necessità “quando i tempi cambiano, di cambiare anche noi”.

Beyonce gli contenderà i decibel degli applausi. Il poeta Richard Blanco declamerà “Una terra, la nostra terra”. Un mare di bandierine a stelle e strisce. Ottocentomila persone ad ascoltare il Presidente. Capitol Hill sullo sfondo. Il Mall in festa. Washington.

Obama proclama la fine di “un decennio di guerra”, si proietta in avanti e chiama a raccolta le forze della nazione per risalire la crisi, “dare risposte nuove a nuove sfide”. Ritrovare il sentiero del benessere che per l’America è un valore, uno dei primi. Anche la piccola esitazione che il bis-presidente ha nel pronunciare la formula del giuramento fa parte di questa perfettibile qualità di una guida alla portata di tutti, che esprime la forza tranquilla di una nazione e dell’eredità sempre viva della sua Carta fondante.

Un discorso che in qualsiasi altro Paese al mondo suonerebbe retorico, ridondante, quasi puerile. Ma che esalta la forza del popolo americano, la sua fiducia di nazione robusta, grande, giovane. Obama dà un messaggio di equità, di attenzione verso i deboli. E conferma la leadership degli USA nella costruzione del futuro. L’America “sosterrà la democrazia in Africa, Asia e Medio Oriente”.

È un discorso tutto americano, ci mancherebbe. All’apparenza, privo di una reale sostanza. Non serioso. Non articolato. Non raffinato. Neppure specifico. Ma accorato, a tratti esaltante. Quello che doveva essere. Che gli americani si aspettavano.

Non un discorso memorabile, ma bello e onesto. Edificante. Quasi un discorso che sembra dire: quel che conta non sono le parole, ma il lavoro che da oggi faremo insieme.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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