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(Ansa)
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Trump il pacificatore dell'Ucraina, tra slogan e verità

Amato e odiato. Sconfitto e incriminato. Lui annuncia la pace Kiev-Mosca in 24 ore, e non scherza

La sconfitta alle presidenziali 2020 e una pioggia d’incriminazioni non sembrano averlo scalfito. «The Donald» è più agguerrito che mai e mantiene quell’atteggiamento tra l’imperturbabile e lo smargiasso che gli è proprio, e che contraddistingue il suo way of thinking, quel suo particolare modo di vedere la politica che lo portato fino alla Casa Bianca.

C’è chi lo celebra e chi lo detesta, come sempre. Ma nessuno può restare indifferente al carisma di Donald Trump. Altrimenti come avrebbe potuto anche questa volta essere in testa alle primarie repubblicane, nonostante la gravità e la quantità dei processi a suo carico?

Così, incurante delle conseguenze delle sue parole e azioni, Trump va a diritto come sempre e promette ogni cosa ai suoi elettori, pur di tornare a Washington da vincitore e apparecchiare la sua vendetta. Per cercare di restare sempre avanti nei sondaggi rispetto al rivale Joe Biden, l’ex presidente ne ha detta oggi un’altra delle sue, nel tentativo d’infilzare proprio il commander in chiefdemocratico: «Fossi presidente io, risolverei la crisi in Ucraina in 24 ore».

Per la verità, questa frase l’aveva pronunciata una prima volta lo scorso maggio ai microfoni della Cnn: «Risolverò la guerra in un giorno, 24 ore, dopo aver incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente russo Vladimir Putin».

Ma dopo la reiterazione del concetto nel bel mezzo delle primarie, il diretto interessato Zelensky piuttosto piccato (e c’è da capirlo, visto lo stallo nel conflitto e l’incertezza su nuove forniture di armi di cui Kiev ha disperato bisogno), si è sentito in dovere di ribattere: «Donald Trump, la invito in Ucraina, a Kiev. Se riuscirà a fermare la guerra in 24 ore, penso che le sarà sufficiente venire».Aggiungendo poi a questa stoccata una riflessione più amara, e cioè che quell’affermazione «è molto pericolosa», come ha ammesso al canale britannico Channel 4 News il presidente ucraino. Come a dire che non si può minimizzare un fatto complesso come un’invasione russa verso Occidente. Anche perché lui, Zelensky, è il primo a rischiare il collo, e per quanto abituato alla comicità, ha perso da tempo il senso dell’umorismo.

E come dargli torto? Ma Donald Trump è uomo di mondo, esoprattutto di comunicazione, e sa fin troppo bene (meglio anche di Zelensky, che pure di propaganda ne mastica) che per vincere è sufficiente dire qualsiasi cosa, che sia vera o meno, basta che venga detta con convinzione. Che poi è lo stesso schema che ha funzionato così bene per Trump sin dal 2016. Vedi la foto segnaletica che lo ritrae con una smorfia tra l’aggressivo e l’intimidatorio, dopo che l’ex presidente quest’estate si è dovutopresentare presso il carcere della contea di Fulton, in Georgia, per essere registrato come imputato.

Il candidato repubblicano, però, trasforma qualsiasi evento negativo in un punto di forza. Anche quando si è paragonato al più celebre dei boss della mala statunitense e, senza neanche pensarci un attimo, ha detto: «Sono stato incriminato più di Al Capone, lui una sola volta, io quattro per aver detto che le elezioni sono state truccate». Peccato che Capone fosse colpevole di tutte le imputazioni a suo carico e di altre ben peggiori, ma tant’è. Lui dice tutto e il suo contrario senza alcun turbamento, né il suo elettorato sembra rimanerne mai stordito o disorientato. Viene quasi da pensare che chi vota Trump oggi lo faccia con una convinzione e determinazione fideistiche, come se davvero egli incarnasse il taumaturgo che tutto può o cui tutto è consentito. Di fatto, Trump agisce come se lo fosse. E, va riconosciuto, con una buona parte degli americani, tutto questo funziona.

Scrive in proposito il Chicago Sun Times, quotidiano mai tenero con l’ex presidente: «Il dono di Trump è stato e rimane il fatto che così tante persone gli credono, a prescindere da tutto, anche quando vengono fornite prove del contrario. I video di persone che irrompono violentemente nel Campidoglio il 6 gennaio 2021, mentre Trump sta cercando di rovesciare le elezioni, secondo lui non è quello che sembra». Vedremo che ne pensano i magistrati che lo dovranno giudicare, ma intanto la gente gli crede e lo vota, preparandogli uno scudo a qualsiasi futura accusa. Fosse anche di sedizione.

Ai repubblicani duri e puri sembra persino ragionevole che oggiTrump affermi di essere in grado di far finire una guerra scatenata da una potenza imperialista secolare come la Russia, in ragione di una supposta «amicizia» o intesa che sia, con l’attuale presidente Vladimir Putin, che non ha mai mancato di sottolineare la stima che nutre per l’ex presidente. «Conosco Putin, conosco Zelensky. Risolverò la questione ancora prima ancora di entrare in carica» è arrivato a dire.

Sarà pure. Ma le ragioni per cui Putin ieri come oggi blandisce Trump non sono necessariamente le stesse che crede quest’ultimo: mentre il tycoon immagina di essere stimato dal capo del Cremlino perché si è dimostrato un leader forte e temibile, invecePutin lo indora di apprezzamenti soltanto perché sa bene che una seconda presidenza Trump significherebbe per la Casa Bianca un ritorno alla politica della «America first», ovvero dell’isolazionismo e del rivolgersi ai problemi domestici. In politica estera, invece, la sfida americana secondo Trump sarebbe semmai orientata in ordine d’importanza: al Messico, al Pacifico e alla Cina, ed eventualmente alla Corea del Nord. Non certo ai problemi dell’Europa e dell’Ucraina, e dunque nemmeno delMediterraneo. Fatta eccezione forse per Israele, dove – almeno qui – neanche il demiurgo Trump osa affermare di avere una soluzione prêt-à-porter.

Di certo, Donald Trump potrebbe ottenere qualcosa, forse anchemolto da Vladimir Putin. Ma non certo una fine della guerra che accontenti entrambe le parti. Come gestire, ad esempio, il fatto che le armi che il Cremlino riversa sull’Ucraina sono di fabbricazione iraniana e nordcoreana? E come considerare la politica energetica statunitense sull’Europa, il cui principale competitor è proprio la Russia? Ogni concessione a Mosca oggi prepara l’Europa alla guerra di domani; e nondimeno arma la vendetta di Kiev, che inizia a comprendere la necessità di condurre una guerra ibrida e non più convenzionale, in attesa di capire se gli F-16 che arriveranno entro l’anno potranno fare la differenza nel conflitto.

Così come ogni passo falso dell’America sulla questione della Nato prepara la nascita futura di un esercito europeo e il distacco progressivo di Bruxelles da Washington. Il che non è necessariamente un male, ma non si sposa bene con il concetto americano di dominio globale. Trump è l’uomo delle corse in avanti, ma non della riflessione sulle conseguenze a lungo termine. È l’uomo delle frasi a effetto, ma non della messa in pratica.

Se vincerà, la legge concederà a Donald Trump altri quattro anni per dare seguito alle sue politiche. Ma quattro sono troppo pochi in confronto a chi, come Vladimir Putin, sa di poter regnare fino al 2036 in teoria. Dunque, perché il capo del Cremlino dovrebbe preoccuparsi dell’inquilino alla Casa Bianca? Putin al momento ha tutto il tempo che desidera per strangolare l’Ucraina, mentre Trump potrebbe anche essere disarcionato dopo appena sei mesi. È la grande differenza tra slogan e realtà, tra dittatura e democrazia, tra il vero potere e il potere delle parole.

Sono lontani i tempi in cui Putin telefonava a Trump per ringraziarlo di aver permesso di sventare un attentato in Russia grazie all’aiuto della Cia. Quell’epoca è finita il 6 gennaio 2021, giorno in cui Trump è stato coinvolto nell’assalto al Congresso degli Stati Uniti. E, anche in caso di un suo mirabolante ritorno, nulla sarà mai più come prima. Né può sperarlo The Donald né tantomeno Vladimir Putin.

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Luciano Tirinnanzi