Post terremoto: ecco chi c'è ancora nelle tendopoli
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Post terremoto: ecco chi c'è ancora nelle tendopoli

Ad oltre un anno dal sisma che ha devastato l'Emilia ecco chi  vive ancora all'interno dei container

Da Mirandola - Da Natale il villaggio più multietnico d’Italia è un piccolo quartiere di container bianchi, appena fuori del centro abitato di Mirandola. Sono alloggi da cantiere, essenziali ma dignitosi, disposti in lotti di 30 o 40 casette. Chi se ne intende li chiama Map: moduli abitativi provvisori.

Ci si arriva alla fine di un percorso iniziato con il violento sisma del 29 marzo 2012, che aveva ucciso 20 persone e tagliato le gambe e l’animo di chi, nove giorni dopo la scossa con epicentro Finale Emilia, stava iniziando a ricostruire. La strada di alcuni dei terremotati finiti nelle tende è proseguita negli alberghi, per poi concludersi nei container (come dice il sindaco di Mirandola, Maino Benatti, «non potevamo certo fargli passare l’inverno in tenda»).

Alla fine del percorso sono rimasti molti stranieri, è quasi ovvio: non hanno una rete di parenti e amici su cui contare. I mirandolesi hanno trovato una sistemazione in fretta. Alcuni sono andati a casa di conoscenti, altri si sono pagati un nuovo affitto grazie al contributo di autonoma sistemazione (200 euro mensili a testa, per un massimo di 900 euro a nucleo familiare). Tra amici, case di villeggiatura e roulotte, molti italiani non hanno passato troppe notti in tenda. Anche i cinesi, dicono in comune, se ne sono in larga parte andati da Mirandola, sfruttando la loro proverbiale rete di conoscenze e parentele.

Nei container sono finiti marocchini, moldavi, pachistani, indiani. «Non ci sono italiani qui, c’è solo qualche napoletano» dice con leghismo involontario Lakhwinder Singh, indiano del Punjab, che vi abita con moglie e figli.
Si fa chiamare Luca perché, dice, «in inglese il mio nome significa “little lucky”». È in Italia da 15 anni, ne ha passati sei sul litorale romano, a Ladispoli, a raccogliere i carciofi, poi è arrivato a Mirandola come operaio. Il terremoto gli ha tolto un lavoro che non ha più ritrovato: «Potrei andare a raccogliere le pere, ma non mi va perché pagano dopo un anno» dice a Panorama. Mostra con orgoglio il piccolo orto che ha ricavato nel mezzo metro di terra che c’è fra il suo container e il marciapiede. È una piccola trasgressione, tollerata come altre perché aiuta a rendere più umano questo villaggio di alloggi incolonnati con geometria anonima.

C’è chi ha piantato dei fiori, chi ha personalizzato il numero civico o lo zerbino d’ingresso.

I fuochi sono vietati, ma una signora italiana si è portatadi nascosto un piccolo barbecue, che è diventato il punto di ritrovo della piazzetta squadrata in cui abita: lo presta a indiani e pachistani, che ci grigliano il loro cibo e dicono di volerle bene, anche se lei, di fronte a un cronista, dice di non poterne più di «tutti questi stranieri».
Gli indiani sono il gruppo più unito. Vengono dal Punjab e sono innamorati di Mirandola («Siamo qui da 12 anni e
non vogliamo andarcene, è un posto bellissimo»). I marocchini sono più numerosi, ma si vedono poco perché sono spesso fuori casa, a lavorare nelle costruzioni. Gli indiani disoccupati, invece, passano la giornata a chiacchierare, in gruppi di due o tre. Lavoravano nelle stalle o nelle aziende, come Rashpal Singh, che era saldatore. Ha passato sette mesi in tenda e poi tre in albergo, a Salsomaggiore: «Un posto bellissimo, un giorno ho provato anche le terme» ricorda. Chi ha scritto che erano stati «deportati in strutture alberghiere» dovrebbe vedere il sorriso che fanno quando glielo si dice. Alcuni sono stati in alberghi a quattro stelle.
Gli italiani in realtà sono un terzo degli abitanti, ma provano a nascondersi in mezzo a questa piccola Babele.
Hanno spesso storie note ai servizi sociali, che li seguono da prima del terremoto. L’unico che ha una gran voglia di parlare è Raffaele Celio, un operaio di 54 anni a cui il terremoto ha tolto la casa ma ha lasciato una scoperta: gli piace aiutare gli altri. I suoi nuovi vicini lo considerano l’uomo che risolve i problemi (linguistici, anzitutto: mentre parla al cronista arriva una colombiana che non riesce a compilare la constatazione amichevole per un incidente).

Le differenze di lingua e cultura, a volte, tornano utili a chi cerca scuse: agli asiatici che fingono di non capire le domande, a chi snobba gli addetti del comune se non sono accompagnati da qualche membro della comunità musulmana locale. Molti si perdono nei mille passaggi necessari a certificare i danni subiti dalle loro vecchie abitazioni. Altri non provano nemmeno, c’è persino qualcuno che potrebbe tornare alla sua casa, di nuovo agibile, ma che finora ha ignorato l’avviso di sgombero.
In comune non sanno ancora come gestire il problema, perché non c’è una norma che stabilisca lo status di questialloggi: sono una residenza (a cui si applicano le procedure di sfratto) o un domicilio come la tenda? Nel dubbio, alcuni sfollati tirano la corda.
Gli stessi addetti del comune hanno «il dubbio che i Map stiano diventando una forma di ammortizzatore sociale». Del resto chi li ha ottenuti deve pagare giusto la tassa per i rifiuti e le bollette (a canone agevolato) di elettricità e acqua (per motivi di sicurezza, le casette non hanno il gas). Non tutti muoiono dalla voglia di tornare a pagare un affitto ai padroni di casa, che a volte non vogliono nemmeno riaprire i contratti che avevano chiuso poco dopo il terremoto.

Il comune era stato costretto a ricorrere ai container perché «la priorità era dare un alloggio a queste persone»
dice il sindaco di Mirandola. Però ora si ritrova incastrato in questo pasticcio, in attesa di una norma che metta ordine.

Si poteva fare diversamente? È difficile, ma qualcuno c’è riuscito. A Finale Emilia, epicentro della prima grossa scossa (ha 1.900 abitazioni danneggiate, 700 meno di Mirandola), per esempio, non ci sono container: «Abbiamo puntato sul contributo di autonoma sistemazione, che permette di pagare un affitto più che dignitoso» dice a Panorama il sindaco, Fernando Ferioli. «Per chi non è riuscito ad approfittarne abbiamo trovato un’altra soluzione: invece di destinarli ai container li abbiamo fatti alloggiare in alcuni appartamenti sfitti da anni». Scelta complicata, perché i privati non volevano saperne di concedere abitazioni di loro proprietà.

Perciò il comune si è rivolto alle società immobiliari, che alla fine hanno accettato. È una soluzione virtuosa a livello di bilancio, perché anche i container hanno un costo: «È di 26 mila euro l’uno, ma i fornitori se li ricompreranno a 6 mila euro» afferma il presidente della regione Vasco Errani, che è commissario straordinario per la ricostruzione. «Se consideriamo tutta l’urbanizzazione necessaria (fogne, impianti e altro) si arriva però a 70 mila euro l’uno» puntualizza il sindaco Ferioli. «Sono contento di aver potuto distribuire le persone in difficoltà in giro per il paese, dando anche qualche soldo a chi li ospita» continua il sindaco, «perché la cosa che mi spaventava di più era che a rivolgersi ai Map erano spesso i cittadini nelle situazioni più difficili, che vedevano la possibilità di un tetto senza pagare».

A Mirandola finora l’«esperimento» ha funzionato: si battibecca al massimo per gli odori del cibo o con chi non fa la raccolta differenziata. I bambini se la spassano, le madri tendono a lasciarli liberi e loro passano la giornata a giocare a calcio nel prato, indiani con italiani, pachistani con tunisini. Però non è ancora arrivato il gran caldo. E stanno per arrivare le prime bollette da pagare.

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Marco Pedersini

Giornalista. Si occupa di esteri. Talvolta di musica. 

Journalist. Based in Milan. Reporting on foreign affairs (and music, too). 

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