«Così ho salvato la vita ad un malato di Covid-19»
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«Così ho salvato la vita ad un malato di Covid-19»

Il racconto di un vero e proprio miracolo, mai provato prima, compiuto all'ospedale di Alessandria dal Dott. Andrea Audo, Direttore di Cardiochirurgia

il diario del Dott. Andrea Audo, Dir. Cardiochirurgia Osp. Alessandria Azienda ospedaliera Santi Antonio e Biagio e Cesare Arrigo

Era un lunedì mattina di fine marzo, un giorno difficile in ospedale. Eravamo in piena emergenza Covid, un po' confusi su una patologia con cui iniziavamo ad avere a che fare, ma della quale non conoscevamo ancora tanti aspetti.

Qualcuno di noi era spaventato, stavamo vedendo tante persone, tra cui colleghi e giovani pazienti, ammalarsi inspiegabilmente. E faticare. Faticavano davvero tanto a respirare, qualcuno moriva. Le terapie intensive erano ormai piene di pazienti che difficilmente riuscivamo a curare con tutte le attenzioni che avrebbero meritato. Il superlavoro lottava contro la scarsità delle risorse umane a disposizione. E qualcuno di noi medici aveva anche iniziato a essere positivo al tampone, a non stare bene. Due colleghi erano ricoverati in condizioni non gravi, ma comunque preoccupanti. Eravamo stati investiti dall'ondata di contagi lombarda, noi, ad Alessandria, la porta del Piemonte che ormai il virus aveva sfondato.


Dott. Andrea Audo, Dir. Cardiochirurgia, Osp. Alessandria


Erano circa le 9 del mattino, avevamo appena terminato un briefing cardiotoracico, avevo visto volti preoccupati e stanchi. Spuntavano occhi pieni di domande da quelle mascherine che ormai erano diventate da oltre un mese le nostre compagne di viaggio inseparabili. Avevamo anche discusso del notevole aumento di eventi trombotici in questi "nuovi" malati, in bibliografia non c'era nulla di concreto, ma la percezione era legata al fatto che non fosse solo un'infezione. L'impressione era che questa scatenasse proprio eventi trombotici, in tantissimi malati.

Ero stato chiamato il sabato precedente dalla rianimazione per due tromboembolie polmonari massive (ancora due, davvero troppe in tre giorni…) in giovani pazienti positivi al Covid. Una di questi non ce l'ha fatta. Mi confrontai con colleghi quel sabato, cercai notizie bibliografiche ma nulla, nulla di nulla. La riunione si concluse qualche minuto prima delle 9, ognuno andò ai propri posti di combattimento, il tempo di rilassarmi un istante con un collega sul pianerottolo e Paola dalla segreteria uscì dicendo: "Arresto cardiaco in giovane, rianimazione".

Ero ancora vestito in abiti civili, camicia, jeans e mascherina, corsi velocemente verso la rianimazione, al piano di sopra. Arrivai in pochi secondi. Valeria stava rianimando un paziente, era intubato, gli infermieri correvano vestiti come palombari, un ambiente surreale, qualcuno mi gridò: «attento è Covid».

Ero un po' stordito, disorientato, scambiai due parole con Valeria, l'anestesista che stava rianimando, quando la cardiologa mi disse "è una tromboembolia polmonare massiva, vedo coaguli che fluttuano in atrio, il ventricolo destro è fermo e disteso". Guardai il monitor della pressione e notai che il massaggio cardiaco era pressoché inefficace. Pensai "l'arteria polmonare sarà tappata…". In un secondo venni catapultato in una situazione analoga vissuta un anno prima con una giovane partoriente in gravi condizioni da analoga patologia: era presente una sofferenza fetale e lei era in stato di shock… Ricordo che anche in quel caso ci fu molta tensione, poi, ci guardammo in faccia insieme con anestesisti e ginecologi e prendemmo una decisione, quella di operare. Con le gambe tremanti decidemmo di effettuare in contemporanea un cesareo e un embolectomia a cuore aperto… andò bene, li salvammo entrambi.

Quei pochi secondi di flashback finirono presto e mi ritrovai al presente, al punto di decidere un'altra volta cosa fare. Tutti mi guardavano e aspettavano che dicessi qualcosa. Un macigno, sentii un macigno sulla testa.

Feci un sospiro lungo per prendere qualche secondo di tempo ancora, cercai di analizzare la situazione e poi dissi: «Lo apriamo qui, chiamate il personale della sala». Gli infermieri si avventarono su di me, una mascherina FFP3, mi trovai a indossare due camici, uno sopra l'altro… sotto i soliti blu jeans e le mie scarpe da tennis. Doppio guanto, occhiali e visiera. Nastro a chiudere ogni possibile parte scoperta e scopribile. Il tempo di farmi addobbare a dovere e avevo la cardiochirurgia alle mie spalle.

Veronica che correva con la macchina cuore polmoni, Lara che buttava sul letto ferri e telini, Corrado - il chirurgo che mi aveva accompagnato in tante battaglie – che borbottava qualcosa. Buttammo subito del disinfettante sul torace, aspettai qualche secondo che tutto fosse un po' più tranquillo e… chiesi un bisturi. Mariella me lo passò istantaneamente.

Con il tagliente in mano, attesi qualche secondo… potevo ancora fermarmi, se lo avessi appoggiato su quel torace e inciso non sarei più potuto tornare indietro. Guardai Valeria che massaggiava ancora, ma la pressione non saliva, mi guardò e mi disse: «L'ho intubato da poco, piangeva come un bambino, ha telefonato a casa un ultima volta prima che gli mettessi il tubo e mi ha detto che aveva paura di morire».

Ebbi il tempo di provare a pensare cosa stavo facendo, stavo per operare un paziente altamente infetto Covid, in arresto cardiaco da oltre 20 minuti, senza alcuna risposta, avevamo quasi zero possibilità di riuscire a salvarlo. Stavo per compiere una follia, forse stavo per compiere una assoluta follia, e in questa mia assurda decisione mi stavo portando dietro tante persone. Mi sentii come un comandante che stava portando i suoi soldati a una missione suicida. Li guardai ancora un istante, e notai che nonostante tutto con assoluta abnegazione, senza fare domande, loro mi stavano seguendo, tutti, dal primo all'ultimo. Li stavo portando a 200 all'ora contro un muro in una corsa quasi sicuramente già persa in partenza, ma loro correvano al mio fianco, senza far domande correvano con tutto il fiato che avevano dentro. Appoggiai quel bisturi sulla cute e incisi .

L'intervento iniziò così; Giulia e Valeria ci supportarono dal punto di vista anestesiologico; in poco tempo individuai i grossi trombi dall'arteria polmonare e la liberai.

Chiudemmo l'arteria polmonare e declampammo l'aorta…. Era il momento della verità. Defibrillammo una… due, tre , quattro volte; il cuore ripartiva ma poi di nuovo andava in arresto .Al quinto tentativo riparti' più deciso, con tanta fatica, ma non si fermò più.

Con il passare dei minuti il paziente teneva una buona pressione, scambiava bene, un risultato inaspettato… ma c'erano ancora tante incognite, una grave infezione da superare, un cuore in difficoltà, un cervello e gli altri organi che potevano aver sofferto in modo irrimediabile. Poteva ancora succedere di tutto, qualsiasi cosa, ma noi, avevamo vinto il primo round, non l'avevamo lasciato andare via, lo avevamo riportato indietro, preso per l'ultimo capello della sua testa che aveva tenuto e non si era spezzato quando lo avevamo tirato. Avevamo venduto cara la sua vita, la vita di un Maurizio qualsiasi incontrato all'improvviso, la vita di un Maurizio che aveva paura di morire e non aveva voglia di farlo….. in mezzo a tanto terrore a tanti dubbi e difficoltà avevamo avuto il coraggio di andare avanti, di non arrenderci.

Mi sono domandato spesso se fosse coraggio, tanto coraggio, tenacia, orgoglio o solo follia, soltanto follia. Nessuno al mondo lo aveva mai fatto e nessuno la ha più fatto per ora dopo di noi, operare un Covid in arresto cardiaco con tromboembolia polmonare… nessuno.

Sono passati 35 giorni da quella mattina. Passeggio in reparto, entro nella stanza 7, un uomo con accanto la moglie sta guardando la televisione. Lo guardo, mi guarda: «Maurizio, hai battuto il Covid, un'embolia polmonare massiva e un arresto cardiaco infinito. Hai vinto, abbiamo vinto noi stavolta, stravinto direi. Venerdì si va a casa… non ti scordare di noi».

In questi mesi noi, i nostri anestesisti, infettivologi, medici di pronto soccorso, infermieri, paramedici del nostro e di tanti ospedali italiani, abbiamo combattuto una durissima battaglia, forse la più sanguinosa della nostra generazione.

Abbiamo visto pazienti di tutte le età ammalarsi, soffrire, a volte morire per questo virus che è arrivato non si sa ancora da dove e perché. Abbiamo visto pazienti risvegliarsi e tornare a casa. La frustrazione, la gioia, la stanchezza, la paura e a volte un senso di impotenza ci hanno accompagnato in questi lunghi mesi. Sentimenti a volte contrastanti, ma che hanno dovuto coesistere nella nostra mente.

Qualcuno di questi soldati straordinari si è ammalato, qualcuno è morto, morto in battaglia come un eroe. La battaglia continua e i soldati sono ancora in trincea; non è assolutamente finita e come tutte le battaglie ci sono giorni migliori e giorni più difficili. In questi mesi difficili ognuno di noi ha imparato qualcosa, senza neanche accorgersi, ma la paura della morte e l'angoscia provata ci hanno cambiato… probabilmente in meglio.

Quando tutto sarà finito saremo persone migliori, se sapremo ricordare questi momenti, se sapremo fermarci a ripensare ad ogni sconfitta e ad ogni vittoria colta in questo pezzo della nostra vita. Questo nostro piccolo contributo è' un segnale di speranza per tutti quelli che ogni giorno fanno il nostro lavoro… Noi che siamo profondamente orgogliosi di farlo e siamo fieri di far parte di quella vasta schiera di colleghi medici, infermieri e paramedici che ogni giorno lavorano ogni giorno, come noi, in qualsiasi ospedale di questo paese. La storia di Maurizio è dedicata a loro, è dedicata a noi…

È dedicata a tutti gli italiani che non mollano mai.

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Redazione