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(Ansa)
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Umiliati o no, il bullismo è un problema e serve una soluzione

Umiliazione, lavori socialmente utili: termini forti, polemiche, contesto, ritrattazioni parziali. Al termine di una giornata di fuoco per il ministro Valditara a seguito delle sue dichiarazioni, resta il tema del bullismo a scuola. Che va trattato come merita

“Le parole sono importanti” è un’espressione cult del cinema italiano resa celebre da un’esilarante scena di Nanni Moretti. Certo lo sono e hanno avuto enorme eco mediatica quelle del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara quando ha esaltato “l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità”, scatenando enormi proteste e alcuni – pochi per la verità – tentativi di contestualizzazione. Il ministro stesso, dopo quasi un giorno di silenzio, questa sera ha trovato opportuno ritrattare, dicendo di avere utilizzato “un termine che non spiega affatto il senso del ragionamento”.

Si tratta di una buona notizia, perché qualche settimana fa proprio il Ministro Valditara, rispondendo alle critiche in seguito alla sua nomina per qualche sua passata pubblicazione e circa i suoi primi messaggi agli studenti, aveva dichiarato di non dover prendere lezioni di storia da nessuno. Invece gli errori si commettono e le lezioni si prendono e, soprattutto da Ministro, le parole vanno pensate e pesate come mai prima. Nel contesto didattico ed educativo, nella scuola insomma, “umiliazione” rimanda a maestre con la bacchetta, ad aule in cui rimbombano urla di rimprovero, a punizioni esemplari dietro la lavagna. Umiliante di sicuro, ma non certo determinante per la crescita di nessuno.

Quello delle orecchie d’asino per umiliare è un modello di scuola che c’è stato e che probabilmente non ha mai funzionato, educando intere generazioni a un rispetto dettato dal timore e non certo da interesse, partecipazione, attivismo, piacere, passione.

Andando oltre la dichiarazione e la polemica, indubbiamente gustosa per siti e social, resta il tema del bullismo, non nuovo e mai lontanamente risolto.

Ogni ordine e grado di scuola fa i conti con questo disagio sociale che di decennio in decennio anticipa i tempi, presentandosi ormai già nelle aule della scuola primaria. Il bullismo non fa distinzioni di ceto sociale e di reddito, anche se indubbiamente le situazioni più critiche si rilevano dove c’è maggiore povertà, nelle scuole cosiddette di frontiera, dove ad esempio non c’è un corpo docente stabile. Per questi motivi, educare un bullo inizia nei primi anni di scuola, quando il bullismo non c’è ancora ed è possibile proporre condotte di vita virtuose, per tutti. Educazione civica alla primaria potrebbe essere principalmente accogliere l’altro, metterlo a proprio agio, favorendo il dialogo che parta dall’ascolto e dal rispetto tra i banchi e in special modo dove c’è maggiore libertà di azione, quindi durante la ricreazione, tra corridoi, bagni e cortili.

Crescendo, il bullismo fa strada e l’educazione virtuosa lascia spazio a individuazione, contenimento e – se fosse il caso – rieducazione.

Avere a che fare con il bullismo tra adolescenti è gravoso, spiacevole e scivoloso in ogni caso, ma in special modo a scuola, dove avviene l’incontro di ogni ragazzo e di ogni diversità e dove, in un ambiente serrato come quello di un edificio, o addirittura di una singola aula, si sta tutto il giorno a stretto contatto tra compagni, amici, rivali, amori, ma anche vittime e carnefici.

In primo luogo, il bullismo va individuato, e già questo è un punto assai complesso, perché più il bullismo è efficace e maggiormente riesce a confondersi e a nascondersi e, anche quando viene allo scoperto, è sempre difficile da estirpare.

Il ministro propone lavori socialmente utili per i bulli, anche sulla scorta di alcune prese di posizione di alcune scuole, ma oltre a questa dichiarazione, o ferma convinzione che sia, come sempre servono pianificazione e investimenti.

I docenti non possono farsi carico di istruire, educare e rieducare insieme. Un po’ perché sono operazioni assai diverse, un po’ perché richiedono approcci umani e professionali differenti e talvolta distanti, un po’ perché progettare un percorso di riabilitazione non è facile, non spetta a un docente né probabilmente a una scuola che è inevitabilmente impreparata a gestire un tema così delicato.

Educare un bullo non si risolve con i lavori socialmente utili, che già a una prima riflessione aprirebbero a una miriade di ulteriori difficoltà legate a infortuni durante queste mansioni, per dirne una. Certo potrebbero essere un elemento da prendere in considerazione. Ma chi se ne occupa? Chi sa gestire il carico di lavoro opportuno? Serve un’autorità giudiziaria nelle situazioni di bullismo conclamato? Certamente servono migliaia di educatori, psicologi e insegnanti di sostegno per attuare una maggiore educazione sul singolo che porti al dialogo a tu per tu con l’adulto, che consenta la riflessione individuale, che preservi il gruppo classe da un violento e, nello stesso tempo, un violento da se stesso.

Sono questioni decisive per il sistema scolastico e non possono essere trattate ai margini di una polemica che ha alzato un polverone fittissimo.

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Marcello Bramati