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EPA/FERNANDO VILLAR
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Il fallimento di Cop25, la conferenza sul clima

Il flop del vertice internazionale sul clima, che rimanda ogni decisione al 2020, è figlio della politica fatalista e scettica di Washington e Pechino

Gambia e Marocco. Ecco gli unici due Paesi attualmente in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima (Cop21), sui cui si basavano le discussioni spagnole della conferenza Cop25, andata in scena a Madrid e naufragata in un preoccupante nulla di fatto.

Siglato nel dicembre del 2015 da 195 Paesi (praticamente tutto il mondo, tranne Siria e Nicaragua), quello di Parigi è ancora oggi l’orizzonte al quale ci si riferisce quando si menzionano le regole per limitare il cambiamento climatico e il surriscaldamento della terra provocato (anche, ma non solo) dall’uomo, sulla scia dello storico Cop3 di Kyoto del 1997.

Per vagliare periodicamente il rispetto dei parametri stabiliti a Parigi e monitorare simili accordi internazionali, ogni anno sotto l’egida dell’ONU si tiene una «conferenza sul cambiamento climatico» che quest’anno a Madrid prometteva di irrobustire le regole alle quali attenersi per limitare l’inquinamento del pianeta, e le modalità per salvare il mondo da un futuro di cataclismi e sconvolgimenti epocali.

Invece, il flop colossale della 25esima Conferenza sul clima, dove non è stata presa alcuna significativa decisione in merito, è consistito nell’aver rimandato tutto alla Cop26, che si terrà a Glasgow, Scozia, il prossimo novembre. Come a dire che abbiamo solo perso tempo (quando di tempo, sostengono gli scienziati, non ne resta molto).

Del resto, l’ottimismo idealista dei giovani – mai come oggi sensibili al tema ambientale, grazie anche all’esposizione mediatica dell’attivista sedicenne Greta Thunberg, eroina della lotta al cambiamento climatico e ispiratrice di appuntamenti «green» come Fridays ForFuture – non poteva che scontrarsi con la cinica realtà del mondo degli adulti, dove invece gli ideali tramontano quasi automaticamente con l’avanzare dell’età.

Il paradosso di Parigi

L’antifona, o meglio l’illusione di massa del sentirsi quanto mai vicini a un accordo globale per salvare il pianeta, era paradossalmente giunta proprio dalla Conferenza di Parigi: l’accordo storico era sì entrato in vigore il 4 novembre 2016, ma era stato ratificato soltanto da 55 Paesi, ovvero la soglia minima prevista. Dunque, una cifra ben lontana dalla entusiastica partecipazione iniziale di quei 195 Paesi che, in linea di principio, si erano detti entusiasti all’idea di aderire.

Già, perché quando chiede agli Stati sovrani di agire subito per non incrementare le emissioni di gas serra, e raggiungere nella seconda metà del secolo una produzione di nuovi gas così bassa da poter essere assorbita naturalmente dal pianeta; quando si chiede ai loro governi di versare 100 miliardi di dollari ogni anno ai Paesi più poveri, per aiutarli a sviluppare fonti di energia meno inquinanti; e ancora, quando si chiede alle loro industrie di produrre su scala globale 56 miliardi di tonnellate di anidride carbonica entro il 2030, invece dei 69 miliardi di tonnellate attuali, ecco che qualcuno - calcoli alla mano - inizia ad avere dei ripensamenti.

Gli Stati Uniti, ad esempio, cioè i primi in classifica tra i produttori di emissioni e i primi «big» a uscire dagli accordi stessi, non appena si è insediato Donald Trump alla Casa Bianca. Ma anche la Cina, che nella classifica dei produttori di emissioni li segue a breve distanza, e che non ha esitato a infischiarsene della questione ambientale, non avendo la minima intenzione di rallentare la crescita della sua economia, che è basata proprio sullo sfruttamento immorale e senza regole di ogni risorsa possibile, sia essa umana o ambientale.

Entrambi i Paesi, che si erano impegnati a ridurre le emissioni del 28% entro il 2025, sono oggi talmente impegnati a farsi una guerra commerciale senza esclusione di colpi pur di non soccombere all’avversario, da non riuscire a scorgere alcun motivo per attenersi a un accordo sul clima che ne imbriglierebbe troppo le capacità di espansione e performance economiche. Eppure, senza queste due superpotenze nessuno sforzo basterà mai a frenare il cambiamento climatico.

I mercati di carbonio

Così, ecco che a Madrid è saltata inevitabilmente l’intesa più importante: quella sull’articolo 6 dell'Accordo di Parigi che regola i cosiddetti «mercati del carbonio», ovvero i meccanismi che sottendono alla commercializzazione di permessi di emissione di anidride carbonica, pensati per sostenere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 secondo sistemi di compensazione e riduzione delle emissioni. In pratica, viene fissato un tetto alla quantità totale di alcuni gas serra che possono essere emessi dagli impianti che rientrano nel sistema.

Il commento di Greenpeace in proposito, è stato da manuale: «i progressi auspicati [da Cop25, ndr] sono stati compromessi dagli interessi delle compagnie dei combustibili fossili e di quelle imprese che vedono in un accordo multilaterale contro l’emergenza climatica una minaccia per i loro margini di profitto». Neanche Marx avrebbe saputo dirlo meglio.

Dunque, ecco i fatti. Come noto, il vero obiettivo degli ambientalisti e degli scienziati è non superare la soglia fatidica dei 2 gradi centigradi sopra la temperatura media terrestre e limitarla a + 1,5, per evitare il punto di non ritorno che entro fine secolo porterebbe la terra a surriscaldarsi oltre i 3 gradi, con conseguenze che gli studi di settore giudicano quasi apocalittici.

Il futuro incerto

Secondo le regole di cui sopra, nel 2020 in Europa le emissioni dei settori disciplinati dal sistema saranno inferiori del 21% rispetto al 2005 e nel 2030 saranno inferiori del 43%. Tuttavia, senza il rispetto degli accordi di Parigi, Stati Uniti e Cina nello stesso periodo (2030) produrranno da soli qualcosa come 5 o 6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in più, causando un aumento delle temperature medie di 0,3 entro la fine del secolo e vanificando di fatto gli sforzi di tutti gli altri Paesi messi insieme.

Così, appare chiaro che, finché verrà loro consentito di crescere economicamente o inaugurare vie della Seta in barba a quelle regole base che guardano alla tutela delle future generazioni, non vi sarà alcuna speranza (se mai ve n’è stata una) di invertire il trend. Abbandonarsi all’idea che non si possano convertire le industrie tradizionali per nuove fonti energetiche in tempi utili o che il surriscaldamento non dipenda dall’uomo, non è soltanto una visione fatalista del progresso umano, ma una vera e propria roulette russa sulla pelle di tutti.

Eppure, se nonostante la corruzione e i ritardi monumentali sull’opera, persino il MOSE italiano è riuscito a dare segnali di vita per evitare in futuro l’acqua alta a Venezia, e se anche la petro-monarchia dell’Arabia Saudita punta ad affrancarsi dagli idrocarburi scommettendo su un futuro a energia solare, allora anche il mondo può sperare che anche Washington e Pechino vengano un giorno illuminati sulla via di Damasco.

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Luciano Tirinnanzi