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(Ansa)
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Alessandro Impagnatiello, assassino a colpi di giustificazioni morali

L'analisi della nostra profiler del barman capace di uccidere la fidanzata Giulia Tramontano ed il loro figlio che aveva in grembo

L’elemento che potrebbe aver fatto scaturire l’azione omicida di Alessandro Impagnatiello potrebbe essere ravvisabile nel vissuto di perdita di controllo nella gestione della situazione sentimentale. Nello specifico gli imprevisti potrebbero essere stati ritenuti dal soggetto inaccettabili, e evitati per mezzo di specifici comportamenti finalizzati a scongiurare l’inatteso. La percezione che il proprio destino fosse fuori controllo, a seguito dello svelamento della relazione parallela e dell’interscambio tra le due donne, potrebbero averlo condotto all’azione delittuosa. Potrebbe essere così intervenuta una scissione che avrebbe consentito a Impagnatiello, nel momento dell’omicidio, di tener conto della sola Tramontano, non prendendo, con grande probabilità, in considerazione l’esistenza del feto.

Affinché ciò potesse aver luogo sarebbe intervenuto un preciso meccanismo di disimpegno morale, il confronto vantaggioso autoassolutorio. Sfruttando il principio del contrasto, i giudizi morali relativi ai propri agiti, sarebbero stati influenzati strutturando abilmente ciò con cui si confrontava. In questo modo sarebbe stato possibile far passere azioni riprovevoli per giuste. Sfruttare il principio di contrasto avrebbe consentito di far sembrare un male minore l’uccisione della compagna incinta, rispetto al problema rappresentato dall’impossibilità di poter continuare la relazione con l’amante. L’omicidio della donna che portava in grembo il proprio figlio non solo sarebbe stato quindi visto come un male minore rispetto alla fine della relazione con l’amante, ma tale impedimento lo avrebbe portato, in termini di disimpegno morale, a considerare l’atto delittuoso come moralmente giusto.

L’utilizzo di giustificazioni morali e attenuanti sarebbero i meccanismi psicologici più efficaci per liberarsi dalle sanzioni morali interne. Quello che potrebbe essere moralmente condannabile diventerebbe fonte di autostima. Si può in tal modo continuare a restare in pace con la propria coscienza, pur contravvenendo ai suoi principi. Credere nella moralità di una causa non solo eliminerebbe l’autocensura, ma metterebbe l’autoapprovazione al servizio di azioni distruttive.

La vittima sarebbe stata colpita al collo con poche coltellate, la mancanza di accanimento potrebbe indicare un agito controllato e una mancanza di coinvolgimento emotivo. Il distacco sarebbe emerso anche successivamente all’omicidio, quando Impagnatiello avrebbe girato con il cadavere della donna nel bagagliaio dell’automobile. Tali elementi potrebbero indicare come la vittima potesse essere percepita dall’assassino non con le caratteristiche proprie di una persona, ma come un elemento disturbante, da eliminare per poter vivere in libertà la relazione con l’amante. L’oggetto dell’azione, come precedentemente descritto, potrebbe essere stato unicamente la donna. Se così fosse in tale dinamica il feto non sarebbe stato coinvolto nel processo cognitivo, la sua presenza sarebbe stata ignorata, sia durante l’azione violenta che, successivamente, nel tentativo di occultamento del cadavere. Queste dinamiche escludenti potrebbero essere state rese possibili dall’egocentrismo patologico. La spinta egocentrica tipica dell’infanzia, ossia una visione unilaterale dell’ambiente esterno che induce il bambino a credere che tutti la pensino come lui e che siano in grado di comprendere i propri desideri e i propri pensieri, potrebbe essere rimasta per l’omicida la chiave di lettura del mondo anche nell’età adulta. L’egocentrico patologico non riterrebbe difatti possibili alternative di pensiero valide rispetto alle proprie e, questo atteggiamento, riguarderebbe ogni sfera della propria vita andando a influenzare ogni rapporto sociale e rendendo impossibili delle relazioni basate sulla reciprocità. Le presunte tendenze al dominio e al controllo potrebbero essere ricollegabili al non superamento dell’egocentrismo infantile, con l’effetto di sentirsi al centro del mondo e di considerare gli altri solo come meri satelliti utili al raggiungimento dei propri fini. L’egocentrico sarebbe inconsapevole di esserlo e questo aggraverebbe il suo potenziale distruttivo all’interno delle relazioni interpersonali; incapace di mettersi in discussione, di rivedere le proprie posizioni o le modalità comunicative con cui le esprime, in caso di incomprensione attribuirebbe all’altro ogni responsabilità, creando labirinti relazionali a vicolo cieco. L’incapacità di spostare il focus da sé stesso all’altro, lo indurrebbe a pensare che tutto gli sia dovuto e a convincersi di non avere alcun debito nei confronti di un mondo deputato a soddisfare i propri desideri. L’egocentrico patologico apparirebbe barricato su una posizione di incomprensibile pretesa. Anche se apparentemente parrebbe capace di rapportarsi superficialmente agli altri, nelle relazioni apparirebbe del tutto irresponsabile e non mostrerebbe rispetto per i sentimenti e le preoccupazioni altrui. Pur possedendo un’adeguata conoscenza delle regole morali, queste verrebbero considerate sullo stesso piano delle norme convenzionali per quanto concerne la permissività, la gravità e la contingenza della loro trasgressione. Lo scarso peso attribuito ai sentimenti altrui, al pari dello scarso senso morale, potrebbero essere attribuibili a una limitata importanza attribuita al rispetto degli scopi morali e al peso rilevante attribuito a scopi come la dominanza.

La freddezza emotiva descritta in precedenza si rivelerebbe anche nella capacità di riadeguare la ricostruzione e la narrazione a seconda dell’esigenza specifica. Nel caso dovesse verificarsi un tentativo di suicidio come esplicitato, questo potrebbe avvenire non per senso di colpa, se fosse confermata l’assenza di capacità di identificazione con la vittima, ma potrebbe essere conseguente a uno stato di ordine depressivo.

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Cristina Brasi