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(Ufficio Stampa Daniele Mignardi Promopressagency)
Musica

Mauro Repetto: «Non ho mai smesso di cercare l’Uomo Ragno»

La metà degli 883, dopo il successo del suo libro autobiografico, porta a teatro il nuovo spettacolo Alla ricerca dell’Uomo Ragno, in cui racconterà e canterà le canzoni della band pavese

«In fondo io e Max non abbiamo mai lavorato insieme: ci siamo solo divertiti». Questa dichiarazione di Mauro Repetto, metà degli 883 fino all’inno generazionale Gli anni, rappresenta perfettamente lo spirito giocoso e la spontaneità che hanno caratterizzato la band pavese, uno dei gruppi di maggior successo nella storia del pop italiano, che ha segnato profondamente gli anni Novanta con le hit Hanno ucciso l’uomo ragno, Sei un mito, Nord sud ovest est e la romantica Come mai (scritta originariamente per Massimo Ranieri). Repetto ha abbandonato la nave 883 nel suo momento di maggior successo per inseguire il sogno americano, fino a trovare la sua dimensione a Parigi, dove vive e lavora da anni come Event Executive per la Walt Disney Company. Dopo il successo del libro biografico Non ho ucciso l’Uomo Ragno (scritto insieme a Massimo Cotto ed edito da Mondadori), Mauro Repetto debutterà al Teatro Serassi di Villa D’Almè (Bergamo) il 28 aprile nel nuovo spettacolo Alla ricerca dell’Uomo Ragno, che poi farà tappa il 5 maggio a Melzo (MI), il 9 maggio a Crema, il 18 maggio a Bollate (MI), il 20 maggio Firenze e il 30 maggio Monza.

Prodotto da Raffaella Tommasi per Daimon Film e Sold Out, con la regia di Stefano Salvati e Maurizio Colombi, Alla ricerca dell’Uomo Ragno è un one-man show innovativo che, attraverso l’utilizzo dell’intelligenza artificiale (una novità assoluta in teatro), farà rivivere agli spettatori il mondo policromo degli 883, con Mauro che, dal palco, dialogherà con il giovane Max Pezzali in una sorta di “reunion virtuale”. Repetto, inoltre, reciterà, ballerà e canterà tutte le hit che hanno fatto da colonna sonora a intere generazioni e, nell’occasione, presenterà anche un suo brano inedito.

Mauro, lo spettacolo Alla ricerca dell'Uomo Ragno, grazie anche all’ausilio dell’Intelligenza Artificiale, racconta la storia degli 883. Tutto parte dalla voglia di scappare da Pavia, un po' come ha fatto Bruce Springsteen dal New Jersey…

«Vero, senza volermi paragonare a un mostro sacro come Springsteen, io e Max nella nostra testa avevamo questa equazione: Pavia si trova di fronte all'impero di Milano così come il New Jersey di fronte all'impero di New York. Le ballad dei Bon Jovi, di Bruce e di Tom Waits mi hanno ispirato e mi ispirano ancora adesso, infatti nello spettacolo teatrale farò anche un omaggio a Bon Jovi che mi ha accompagnato durante tutta la vita Sarò affiancato sul palco da alcuni artisti, tra cui Maklin, una cantante di origine cubana che vive in Italia, con una voce straordinaria. Ciò che accomuna tutte le province d'Italia e forse del mondo è quello di essere in un ambiente un po’ovattato: non è che stai male in provincia, hai il tuo giro di amici e la tua famiglia che ti accudisce, però chiaramente hai sempre la voglia di perforare questo tetto della provincia, di andare altrove e, come diciamo in Con un deca, in cerca di qualcosa che poi, in realtà, non sappiamo neanche noi»

E tu, esattamente, che cosa cercavi?

«La bellezza della vita è quella di cercare sempre qualcosa, per questo ho mollato gli 883 e sono andato a Miami, a Beverly Hills e a New York. Ho provato nuove esperienze e continuo a cercare nuove esperienze. Il momento più bello dell'amore è quando sali le scale, quando sei iper adrenalinico ed entusiasta. Quindi, in Alla ricerca dell'Uomo Ragno, io e Max siamo una sorta di supereroi di provincia, Peter Parker potrebbe tranquillamente essere uno di Pavia. Lui era un supereroe non tanto per le ragnatele e per il fatto di volare tra grattacieli e le luci di New York, ma perché si impegnava di brutto, a volte anche in maniera maldestra, ma dando sempre l'osso. Anche se da anni abito Parigi, ho sempre dentro di me questa sfera di provinciale che cerca qualcosa che non sa nemmeno lui cos'è»

Hai detto che gli 883 erano “due normaloni di provincia con una grandissima voglia di farcela”. Si può dire che è stato questo il segreto del vostro successo?

«Ti assicuro che allora avevamo solo voglia di far passare il pomeriggio, dalle due alle otto di sera, divertendosi al massimo, facendo delle canzoni o scrivendo delle cavolate che poi, magari, sono diventate dei brani di successo. Però allora non avevamo proprio l'attitudine di uno che deve riuscire a tutti i costi, io e Max eravamo semplicemente compagni di banco che condividevano tutto. Eravamo come una squadra di calcio che ha degli schemi che conosci a memoria, del tipo, se uno crossa, sai già che l'altro è pronto a fare goal di testa»

Gli 883 sono il simbolo di un'epoca genuina e spensierata, in cui ci si voleva divertire e non ci si prendeva troppo sul serio, a differenza di oggi, dove nel mondo della musica(e non solo) sembra tutto molto calcolato e studiato, non trovi?

«Non vorrei utilizzare il termine ingenui, però diciamo che il nostro obiettivo primario era quello di arrivare alla fine della giornata cercando semplicemente di divertirsi, che è lo stesso tipo di rapporto che abbiamo oggi io e Max. Non ci sentiamo regolarmente, tipo a Pasqua e a Natale, ma quando capita di essere al telefono non parliamo mai di lavoro o di quello che stiamo facendo, ma diciamo sempre delle cazzatine surrealiste, come all'epoca. In fondo io e Max non abbiamo mai lavorato assieme, ci siamo solo divertiti e quando è finita, è finita, basta, senza problemi»

Hai dato una definizione di Max che trovo bellissima: "un ragazzo con gli occhi blu che parla in una maniera per metà razionale e per metà a surreale"…

«Non vorrei scomodare André Breton, ma Max è surrealista nel senso che, da una semplice immagine, ti porta totalmente da un’altra parte. Ho capito questa sua caratteristica a scuola, durante una lunghissima assemblea di istituto con 500 studenti. Tutti parlavano di vari problemi, tipo che il panino costava troppo, io ero mezzo addormentato mentre Max mi si avvicina e mi sussurra all’orecchio: "Ti immagini se adesso dietro alla professoressa arriva uno stambecco che comincia a saltare dietro di lei?" Con questa frase assurda mi ha portato in un attimo dalla scuola di Pavia in un paesaggio arcaico delle Alpi. Lui ha un'intelligenza enorme per poter creare delle situazioni assolutamente comiche»

Tu hai lasciato gli 883 per andare a Miami a conoscere una modella di cui ti eri innamorato, poi, dopo alcuni mesi, sei tornato in Italia per laurearti in Lettere Moderne e per fare il militare. Infine arriva l’esperienza di Parigi, dove vivi ancora dopo tanti anni. Ci racconti com’è nata la tua esperienza parigina?

«Mia mamma lavorava all'ufficio di collocamento provinciale del lavoro, dove riceveva diverse richieste di lavoro per Disneyland. Io non avevo bisogno di lavorare, però mia madre voleva assolutamente un lavoro fisso per non finire a fare il bohémien a Parigi. Vado a questo colloquio di lavoro in cui non faccio alcun cenno della mia precedente esperienza musicale, gli dico solo che sono laureato in Lettere e così iniziano a farmi lavorare da cowboy. Dopo circa sette mesi da cowboy, in cui ho vissuto a Parigi quasi da fantasma, un dirigente della Disney mi riconosce e mi mette a lavorare nell’organizzazione degli eventi. Oggi sono Event Executive della Walt Disney Company: organizzo eventi molto grandi, è quasi un'attività da produttore che deve mettere in pratica, in modo artistico, le direttive e il budget della Company»

Si può dire che gli 883 sono stati un po’ gli Wham italiani, con un cantante più dotato vocalmente e l’altro componente fondamentale per ottenere un contratto discografico e per dare una direzione artistica al progetto?

«Ma no, non si può fare un parallelismo, loro erano due londinesi fino al midollo, molto cool e telegenici, noi eravamo due provincialoni di Pavia. Ad un provino io mi sarei presentato con una tuta da da calcio e Max con la maglietta di Vasco e l'autoradio sotto il braccio»

Ai vostri esordi eravate un duo rap, che aveva come riferimento i Beastie Boys, i Public Enemy e i Run DMC. Vi sareste mai immaginati che, trent'anni dopo, il rap italiano avrebbe avuto questo successo, tanto da dominare le classifiche degli album degli ultimi cinque anni?

«All’inizio, sulla scena pop mi sono trovato completamente spiazzato perché noi nasciamo come rapper. Cecchetto non c'ha mai veramente cagato come rapper, quindi abbiamo cominciato a scrivere pezzi come autori per la Warner Chappell. Anche Max, che rappava come me, ha dovuto imparare un nuovo mestiere, quello di cantante, che ha un modo completamente diverso di stare sul palco. In realtà, il primo a credere in noi come rapper è stato Afrika Bambaataa (uno dei padrini dell'hip hop americano n.d.r.). Era l’estate in cui andava fortissima la sua Reckless con gli UB40 e lui si trovava a Bari per un concerto. Gli diamo una cassetta di pezzi nostri in inglese e, contestualmente, gli chiedo che ne pensa del rap in italiano. Lui mi dice “Ma certo, fai rap in italiano: ognuno deve usare la sua lingua”. In quel momento improvviso un freestyle con le prime parole che mi venivano in mente, a lui piace e dopo due giorni ci ritroviamo a condividere con Bambaataa, per qualche minuto, lo stesso palco del Country Club di Siziano, tra Pavia e Milano»

Tra l’altro, so che ti è mancato davvero poco per pubblicare un album rap in America per la Def Jam, una delle più importanti etichette dell’hip hop, poco dopo la tua uscita dagli 883. Com’è andata esattamente?

«Gli anni ha segnato per me la decisione finale e irreversibile perché non ne potevo più della “stessa storia, stesso posto, stesso bar”: volevo una nuova storia negli Stati Uniti perché mi ero innamorato di una modella di Miami di nome Brandi. Lo dico a Max, aggiungendo che, per onestà intellettuale, non me la sentivo di firmare questa canzone perché chiaramente era l'ultima per me. Lui è stato molto comprensivo e per questo lo ringrazierò sempre. Arrivato a Miami non riesco a conoscere Brandi, ma le sue amiche, tra cui le top model Tyra Banks e Beverly Peele. Beverly era sposata con un manager di importanti gruppi rap, mentre i padrini della loro figlia erano Karl Lagerfeld e Russell Simmons, il proprietario della Def Jam. Russell crede in me, poche settimane dopo entro in studio per produrre il mio primo album rap per una major, ma il marito di Beverly la picchia perché scopre che l’ha tradito, così lui deve scappare da New York e io, da persona a quel punto non più gradita, torno in Italia con i miei nastri sotto i gomiti. Ricanto i brani in italiano e pubblico, anche grazie all'aiuto di Toto Cutugno, l’album Zucchero filato nero, che non è stato esattamente un successo…peccato, perché è mancato davvero poco alla realizzazione del mio sogno americano»

Tornando al presente, che progetti hai dopo questo spettacolo teatrale? Hai intenzione di tornare nel mondo della musica?

«Non voglio pormi degli obiettivi precisi, se non quello di divertirmi e di avere la possibilità di fare delle cose che mi piacciono, che mi esaltano e che mi gasano come produttore di film, di serie tv e di musical. Però la musica resta per me sempre un amore importante»

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Gabriele Antonucci