​Toni Servillo
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Servillo: «L'amore non è fotogenico»

Questa frase descrive «il rapporto che ho con cinema e teatro» confessa l'attore a Panorama, a pochi giorni dall'uscita del film È stata la mano di Dio. E poi:le sue paure sul set, il legame coni genitori, quello con Napoli («città teatrale in ogni sua manifestazione») e l'amicizia con Paolo Sorrentino. Il futuro? «Prossimamente mi vedrete in tv nei panni di Papa Paolo VI...».

«Mi ricordo che un giorno alla fine degli anni Novanta mi arrivò il copione di un giovane regista, Paolo Sorrentino, che voleva girare il suo primo film intitolato L'uomo in più. Avevo 40 anni, avevo già debuttato al cinema alcuni anni prima con Mario Martone in Morte di un matematico napoletano, pellicola nata con lo stesso spirito indipendente con cui tempo prima avevamo creato la compagnia Teatri uniti. In quel periodo preparavo Il misantropo di Molière e mi vedevo ormai solo dentro la carriera teatrale. Così, considerando il cinema con lo snobismo tipico dei teatranti, per un po' ho fatto penare Paolo prima di accettare il mio primo ruolo da protagonista». Toni Servillo, 62 anni, ricorda così il suo incontro con Sorrentino, con cui è tornato a recitare per la sesta volta in È stata la mano di Dio, Gran Premio della Giuria alla Mostra del cinema di Venezia e candidato agli Oscar per l'Italia, la cui uscita è prevista il 24 novembre in sala, mentre su Netflix andrà in onda dal 15 dicembre. Nel film l'attore che ha incarnato Giulio Andreotti ne Il Divo e Silvio Berlusconi in Loro, e si può ammirare ora al cinema nel ruolo di Eduardo Scarpetta in Qui rido io e di un agente carcerario in Ariaferma, interpreta Saverio Schisa, un uomo simpatico in famiglia e serio sul lavoro, che è anche un marito fedifrago e il padre di Fabio (Filippo Scotti), il giovane protagonista e alter ego di Sorrentino in quest'autobiografia del regista. «Paolo voleva fare il ritratto di un padre come ne abbiamo conosciuti tanti, un mascalzone simpatico che copre con la sua ribalderia la propria inadeguatezza» dice Servillo. «Anche se non somiglia a mio padre, ne ho conosciuti tanti di uomini così negli anni Ottanta».

Posso chiederle che rapporto aveva lei da ragazzo con i suoi genitori?

Sono cresciuto in una famiglia senza tradizioni nel mondo dello spettacolo, inaugurata da me e mio fratello (Peppe, cantante degli Avion Travel, ndr). I miei però erano spettatori e ci hanno trasferito l'incantesimo della vita.

Come si è avvicinato alla recitazione?

Alcuni antropologi parlano di Napoli, dove sono cresciuto, come di una città in cui esiste un comportamento sociale recitato. Canzoni e poesie la definiscono come un grande palcoscenico, e vi è questo humus che può incantare un ragazzo, fatto di segni, gestualità e dialetto, una lingua molto teatrale. Da bambino assitevo come un rito alle commedie di Eduardo (De Filippo, ndr) in tv, e mi rendevo conto che le famiglie da lui raccontate, certe madri vessate o certe zie isteriche, le ritrovavo nella mia. Così mi sono avvicinato al teatro, e qualche anno dopo con Mario Martone abbiamo avuto l'idea di creare una compagnia indipendente, Teatri uniti, e poi di fare un cinema altrettanto libero.

Qui è appunto venuto a bussare Sorrentino. Come definirebbe il vostro rapporto dopo 20 anni di collaborazione e sei film?

Condividiamo un'ossessività e concentrazione per il lavoro stemperata dall'ironia: ridiamo molto insieme, a suggello di un'intesa che si rivela quando ragioniamo su una sceneggiatura o un personaggio. Paolo mi ha definito un fratello maggiore e forse per questo si è sentito rassicurato nell'affidarmi il ruolo delicato, seppur reinventato, di suo padre.

Il film, fin dal titolo, fa riferimento a Maradona, capace anche di miracoli. Lei che rapporto ha avuto con Diego?

Simpatizzo per il Napoli e l'ho visto giocare dal vivo, assistendo allo spettacolo popolare straordinario di 80 mila persone che si emozionavano ogni volta che toccava il pallone. Un genio come Maradona in una città come Napoli finisce in quella teoria di miti e personaggi che vengono mitizzati e nei quali si riconosce, nel bene e nel male, per la loro irregolarità. Se Milano è la città degli affari, Roma della politica e della Chiesa, Napoli appare di difficile definizione, se non attraverso i suoi miti naturali, come il mare e il Vesuvio, e letterari, come Eduardo, Totò e Pulcinella. Maradona rientra in questi personaggi che catalizzano un'energia e la restituiscono alla città in un gioco d'amore tra lo spettatore e l'eroe. Napoli è una città che ha tra le sue caratteristiche questo sottilissimo grado di separazione tra l'alto e il basso, i ricchi e i poveri, i nobili e i lazzaroni.

Tra le battute più celebri dei suoi personaggi c'è quella di Jep Gambardella in La grande bellezza: «La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo per le cose che non mi va di fare!». Lei che ne ha 62 ha già raggiunto la stessa consapevolezza?

Comincio ad avvertire che in quella frase di Jep c'è una profonda saggezza. Ci sono cose, soprattutto quelle superflue, che non voglio fare più. Ma di sicuro le tengo per me. Più invecchio comunque più la lista si allunga.

Ha altre battute cinematografiche nel cuore?

Una di Louis Jouvet, attore cui ho dedicato uno spettacolo teatrale, nel film Ragazze folli, dove interpreta un insegnante di recitazione che congendandosi dai propri studenti già attratti dal cinema dice: «Ricordatevi che l'amore non è fotogenico». Mi piace perché riassume i miei amori per teatro e cinema, così diversi nella pratica e nel linguaggio, per me come marito e moglie che dormono in camere separate. Un'altra è quella di Troisi in Ricomincio da tre. Lui ha una relazione con una ragazza del Nord e lei, dopo una scappatella, nel tentare di ricomporre le cose dice: «Ma non siete voi napoletani che dite che quando c'è l'amore c'è tutto?». E Troisi risponde: «No, quella è la salute». I napoletani in una sola battuta sono capaci di sintetizzare un sentimento nei confronti della vita.

In una sua intervista a proposito di La ragazza nella nebbia lei ha detto che è stato bello scoprire che anche Jean Reno sul set provava timore come lei. Si ha paura anche con tutta la sua esperienza?

Jouvet una volta chiese a un giovane attore se aveva paura di andare in scena e lui rispose di no. Così gli disse: ti arriverà col talento. Maggiori risultati si ottengono, meno ci si deve sentire comodi nell'aver raggiunto una vetta. Quando vedi che un tuo collega come Reno o Daniel Auteuil esprime lo stesso senso di inadeguatezza di fronte a un nuovo personaggio, capisci che vi aiuterete. Perché quando il regista dice «azione» è come tuffarsi, ed è bello sapere che qualcuno sarà lì quando riemergi.

Che ricordo ha dell'interpretazione di Andreotti e Berlusconi?

Devo molto a questi personaggi, anche se è stato rischioso incarnarli, e penso che entrambi quei film conservino un valore che diventerà sempre maggiore nel tempo perché vi si può leggere una parte della storia del nostro Paese, nelle sue contraddizioni e difficoltà.

Per congedarci posso chiederle a cosa sta lavorando ora?

Sto girando con Gabriele Salvatores Il ritorno di Casanova in cui sono un regista che realizza un film tratto dall'omonimo romanzo di Arthur Schnitzler, poi sarò ne Il mio primo giorno della mia vita di Paolo Genovese, infine ho girato sei puntate della serie Esterno notte in cui Marco Bellocchio torna a occuparsi del delitto Moro. Lì sono Papa Paolo VI, un uomo tormentato dal conflitto tra l'azione pratica che consiste nel salvare la vita a una persona che considerava come un figlio e il senso di responsabilità che impone una figura pubblica così alta.

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Francesco D'Errico