Sergio Leone, era mio padre
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Sergio Leone, era mio padre

Il rapporto burrascoso con Robert De Niro, la «scoperta» di Clint Eastwood, la passione per il Far West. Andrea Leone, figlio del celebre regista, rivela a Panorama aneddoti e storie sul lavoro di suo papà con gli occhi di chi il backstage lo ha vissuto fin da bambino. E anticipa il docufilm che ne celebra la carriera (nelle sale dal 20 ottobre).


«Robert De Niro è un tipo molto introverso. E sul set di C’era una volta in America nessuno poteva incrociare il suo sguardo, a parte il direttore della fotografia Tonino Delli Colli, e il regista, mio padre, altrimenti chiedeva di rigirare la scena. All’inizio lui e mio papà si studiarono, ebbero anche qualche screzio: De Niro per esempio non era d’accordo sulla colonna sonora di Morricone, ma lui finì per convincerlo. Alla fine ottenne la sua fiducia incondizionata, e ricambiata. Al punto che, se mio padre non fosse morto il 30 aprile 1989, gli avrebbe chiesto di essere protagonista anche del suo film su Leningrado, purtroppo mai realizzato».

Il produttore Andrea Leone, 52 anni, presidente e amministratore delegato di Leone Group, ricorda così la lavorazione dell’ultimo titolo e capolavoro assoluto di suo padre Sergio Leone, la cui carriera, film, collaborazioni e influenza sui cineasti a venire sono raccontati nel documentarioSergio Leone, l’italiano che inventò l’America di Francesco Zippel, in arrivo al cinema dal 20 ottobre. «Far venire star come De Niro da Hollywood, o altri come James Coburn e Rod Steiger per Giù la testa, era difficile allora come adesso. Ma quando eri un autore di cinema riconosciuto, come oggi accade a Paolo Sorrentino, allora potevi riuscirci» spiega Andrea Leone. Clint Eastwood invece lo lanciò proprio lui in Per un pugno di dollari. Clint non parlava una parola d’italiano, né suo padre d’inglese. Come riuscivano a lavorare? Comunicavano a gesti, e siccome li accomunava la conoscenza del linguaggio cinematografico, riuscirono comunque a mettere in scena uno spettacolo fantastico. Mio papà diceva che Clint era un grande attore ed era contento di aver lavorato con lui. Credo sarebbe stato curioso di vederne la crescita da regista, perché quando morì, Eastwood ancora non aveva girato i suoi capolavori.

Come descriveva suo padre gli «spaghetti western»?

Non amava molto quella definizione un po’ dispregiativa coniata in America. Lui era cresciuto con il genere, ma i suoi western erano realistici, perché aveva studiato quell’epoca e sapeva che i cowboy non erano damerini, ma assassini o gente che viveva di espedienti. Diceva sempre che nei film di John Ford il protagonista apre una finestra per guardare l’orizzonte oltre la prateria, mentre nei suoi per prendere una pallottola in mezzo agli occhi. I suoi western erano violenti e cupi.

In C’era una volta il West il protagonista è uno spietato assassino che, mandato a intimidire un proprietario terriero, uccide lui e i suoi tre figli…

Per la parte scelse Henry Fonda, che fino ad allora aveva interpretato solo ruoli da buono. Gli piaceva stupire gli spettatori di cui aveva enorme rispetto, perché diceva sempre che il pubblico è il più autorevole critico del mondo.

E con la critica che rapporto aveva?

Non era molto amato dai critici e, come altri autori, è stato consacrato solo dopo la morte. Viveva la cosa con dispiacere, pur consapevole che non tutti abbiamo la stessa visione della vita e del cinema.

Quando girò Giù la testa le recensioni lo massacrarono. Come mai?

Era un film politico, ambientato durante la rivoluzione messicana, in cui il peone interpretato da Rod Steiger diceva all’ex rivoluzionario James Coburn che le rivolte sono combattute dai poveri, mentre i ricchi parlano, mangiano e poi alla fine rimangono al proprio posto. Era un discorso che oggi sarebbe considerato populista e in quegli anni, che seguivano la contestazione, la sinistra disapprovava, perché era un messaggio contrario alla causa.

Lei aveva 21 anni quando suo padre è morto d’infarto. Che ricordi personali ne conserva?

Adorava stare con mia madre (Carla Ranaldi, ex prima ballerina dell’Opera di Roma, ndr), me e le mie sorelle Raffaella (60 anni) e Francesca (58): trascorreva tutto il tempo libero con noi e organizzava vacanze dove venivano anche i nostri amici. Giocavamo a carte, vedevamo le partite di calcio della Roma, di cui era un grande tifoso, e vedevamo film.

Ne ricorda alcuni?

Amava molto Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman e Witness - Il testimone di Peter Weir. Ricordo che uno degli ultimi visti insieme era Big: una volta finito mi disse che Tom Hanks, ancora a inizio carriera, sarebbe diventato una star.

Casa vostra da chi era frequentata? Che amici aveva suo padre?

In casa nostra passavano tutti: Ugo Tognazzi, Renato Zero, Luigi Magni e tanti altri. Per noi erano amici di papà, che ovviamente conoscevamo nei loro pregi e difetti. Ricordo però che quando conobbi Alberto Sordi ero emozionato. Nell’ultima fase della sua vita mio padre si legò molto a Giuliano Gemma. E poi c’era il suo grande amico ed ex compagno di scuola Ennio Morricone: si mettevano insieme al piano, Ennio suonava le melodie e mio padre gli dava indicazioni: «Ennio, questa fammela più dolce».

Come mai dopo Giù la testa aspettò addirittura 13 anni per girare C’era una volta in America?

Aveva letto il romanzo Mano armata di Harry Grey, una sorta di autobiografia del personaggio di Noodles (interpretato da De Niro, ndr) e voleva reinventarlo a modo suo, sostituendo i classici mafiosi italoamericani con gangster ebrei. Amava il cinema e voleva girare i film che gli piacevano, al punto tale che gli offrirono di dirigere Il padrino e rifiutò pur di realizzare quel film. Così aspettò 13 anni, mentre produceva altre pellicole e pubblicità.

Il film trionfò a Cannes, ma fu un flop negli Stati Uniti, dove lo tagliarono dai 229 a 139 minuti.

Mio padre la prese malissimo e non volle mai vedere quel montaggio. Che probabilmente fu realizzato per avere più spettacoli al cinema e vendere più biglietti.

E di Leningrado cosa è rimasto?

Solo una pagina dei titoli di testa. E il mio ricordo di quando lo raccontò scena per scena in una conferenza stampa a Mosca, poco prima di morire. Siamo convinti che esista una registrazione audio di quell’incontro, ma non siamo mai riusciti a trovarla.

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Francesco D'Errico