Repubblicani Usa contro Volkswagen: non fate quel referendum
Nello stabilimento di Chattanooga in Tennessee i 1550 dipendenti della casa tedesca devono votare se essere rappresentati o meno dal sindacato. Ed è subito una bufera politica
Il futuro del sindacato dell’auto americano è nelle mani di 1550 operai. Sono quelli che lavorano nella fabbrica che la Volkswagen ha aperto nel 2011 a Chattanooga, in Tennessee. Quei 1550 dipendenti, tra il 14 e il 16 febbraio, sono chiamati a votare in un referendum, dall’esito vincolante, per rispondere a una semplice domanda: volete essere rappresentati dal sindacato? Vista con gli occhi di un europeo questa è una domanda che non ha senso, ma non è così in Usa e non lo è soprattutto nelle fabbriche automobilistiche di produttori stranieri. In quelle fabbriche, infatti, il sindacato non c'è, non è mai entrato nonostante ci provi da almeno 30 anni. Lo United Automakers Workers (Uaw) è presente solo nelle fabbriche dei produttori americani e, quindi, anche negli stabilimenti della Chrysler, guidata da Sergio Marchionne.
Il referendum ha scatenato una battaglia politica feroce da parte dei repubblicani che governano il Tennessee e che hanno nel senatore Bo Watson il loro leader. Watson ha accusato la Volkswagen di aver acconsentito allo svolgimento della consultazione tra i propri operai dando (addirittura) i locali della fabbrica per le riunioni preparatorie. I repubblicani temono che un eventuale successo della Uaw, guidata a livello federale da Bob King, possa essere un precedente e agevoli l'ingresso del sindacato anche nelle altre fabbriche sindacalizzando i 48.500 lavoratori dell’automotive del Tennessee. E questo, temono, potrebbe rendere più attraente per un costruttore installarsi in Messico. Secondo Watson il referendum vìola anche gli accordi alla base dell’ingresso del produttore tedesco in Tennessee, ovvero: niente sindacati in fabbrica. Lo ha ricordato il leader della maggioranza repubblicana dello Stato, Gerald McComick, usando parole come “sgradito” riferite alla Uaw. Il gruppo di pressione, sempre legato agli ambienti repubblicani, Southern Momentum, è arrivato a scrivere in un volantino che “un voto a favore del sindacato è un voto contro l'ampliamento della fabbrica” che, dal 2016, dovrebbe iniziare a produrre un nuovo modello di Suv. Lo scontro è arrivato a un punto tale che lo Stato del Tennessee ha perfino minacciato di non rinnovare gli incentivi alla rottamazione del valore di 580 milioni di dollari nel caso in cui la Uaw vincesse il referendum.
In effetti la decisione dei 1550 dipendenti della Volkswagen potrebbe avere un riflesso importante su tutta l’industria automobilistica. Non è detto che un «sì» faccia dilagare la Uaw nelle fabbriche della Toyota o dei costruttori coreani. Il rischio è che, al contrario, la vittoria dei «no» possa non solo mettere fine al sogno di entrare nelle fabbriche straniere, ma anche segnare l’inizio del declino della Uaw. I produttori non potrebbero che vedere con favore una sconfitta del sindacato. Marchionne compreso. Quando si è trattato di ridurre il costo del lavoro dei dipendenti della Chrysler, il capo della Fiat trovò in Bob King, e nel suo predecessore Ron Gettelfinger, dei fierissimi avversari che gli hanno reso durissima la vita. Ora che la Chrysler è formalmente un’industria straniera (dal primo gennaio è al 100% italiana) un’eventuale sconfitta in Tennessee potrebbe avere riflessi anche a Detroit.
La guerra ideologica che si è scatenata attorno a questo voto ha lasciato piuttosto interdetti i dirigenti della casa automobilistica tedesca. Sebastian Patta, portavoce dell’amministratore delegato della fabbrica, Frank Fisher, ha dovuto dire, piuttosto stupefatto, che “la democrazia è un ideale americano”. Ovvero: dovreste essere voi a insegnarla a noi.