Scontrino di civiltà: onesto - disonesto
Economia

Scontrino di civiltà: onesto - disonesto

In base ai controlli del 2012, quasi 4 esercizi su 10 sono risultati irregolari. Insomma, mezza Italia ruba al fisco e giura di non poterne fare a meno. Ma perché nessun governo (nemmeno quello dei tecnici) riesce a colpire gli evasori? Viaggio tra esperti e tecnici, alla ricerca della migliore ricetta

UPDATE: I dati sono di oggi, 13 agosto. Il 50% percento dei commercianti ed esercenti controllati nel fine settimana dalla guardia di finanza a Como e dintorni non sono risultati in regola con l'emissione degli scontrini e delle ricevute fiscali. Il blitz stile Cortina si è concentrato in particolare su Como e Cantù nel centro storico, in bar, ristoranti, pizzerie, negozi. Il comasco è solo l'ultima di una serie di zone colpite dai controlli della Guardia di Finanza. Da Cortina, alla costa ligure, passando per Firenze e Roma. Ovunque, la situazione non cambia. La guerra dello scontrino è in pieno corso. E nessun governo, né politico né tecnico, è riuscito finora a fermarla. Ecco perché e quali ricette si possono mettere in campo, nel serivizio di copertina del numero di Panorama in edicola dal 9 agosto.

È la guerra dello scontrino. Dopo i controlli dell’inverno scorso a Cortina, la parola d’ordine è: «Dieci, cento, mille blitz». Nei bar, nei ristoranti, nella boutique, dal gioielliere. L’ultimo, sabato 4 agosto, nel quartiere romano di San Lorenzo: 50 ispettori dell’Agenzia delle entrate sono andati in coppia in 25 locali notturni e sono stati tutta la sera vicino alla cassa, a controllare che ogni singolo gin tonic venisse registrato.

«Poi controlleremo il flusso degli scontrini emessi lo stesso giorno della settimana precedente, e di un mese prima, e di un anno prima. Se ci sono anomalie (e ci saranno, ndr) terremo sotto controllo quei locali anche in futuro» dicono gli ispettori di Attilio Befera, il capo dell’Agenzia. Ma siamo noi italiani che non vogliamo pagare le tasse oppure è l’Italia che non sa esigerle? Siamo il Paese eterno regno dei furbi o siamo il carrozzone che non riesce a far funzionare l’amministrazione fiscale? Insomma, dove sta il problema delle tasse non pagate? È nell’etica, nell’antropologia, nella genetica lombrosianamente italica, oppure nello Stato clientelare, burocrate, attento più al voto che al risanamento delle casse?

Due certezze su tutto: la prima, siamo uno dei paesi europei con la maggiore pressione fiscale (oltre il 50 per cento), ma soprattutto siamo lo Stato al mondo dove negli ultimi dieci anni la pressione fiscale è aumentata di più (3,4 per cento) mentre nell’area euro è diminuita dell’1 per cento, con cali in Germania del 2,5, in Finlandia del 4 e in Svezia addirittura del 6,3. Seconda certezza: in Italia il sommerso vale tra il 18 e il 22 per cento del pil (a seconda delle ricerche). Mancano all’appello tra 120 e 180 miliardi di tasse evase.

Ma perché i governi di centrosinistra, di centrodestra, o quello attuale dei tecnici non sono mai riusciti a debellare la piaga dell’evasione? Luciano Gallino è uno dei più autorevoli studiosi del mercato del lavoro: «La mia risposta è semplice» dice. «Non c’entrano né l’antropologia né il carattere né la cultura degli italiani. Semplicemente, non sono mai stati applicati gli strumenti giuridici per frenare l’evasione fiscale. Nessun governo, nessun partito ha mai fatto davvero la lotta all’evasione perché il 22 per cento del pil sommerso significa che alle spalle di quella cifra vivono milioni di italiani. E quindi milioni di elettori».

A parte le responsabilità della politica, la grande accusata è la macchina pubblica. Dice Vittorio Carlomagno, professore di diritto tributario all’Università Parthenope di Napoli, presidente dell’Associazione contribuenti e consulente della Krls, il network dei gesuiti che studia le dinamiche sociali e i comportamenti etici: «Sicuramente non c’è l’educazione a pagare le tasse, ma nessuno l’ha mai insegnata. La ricetta più semplice è quella degli Stati Uniti, dove il contribuente più ricco paga appena il 23 per cento del suo fatturato lordo».

Carlomagno propone una riforma in tre punti: ridurre le aliquote, migliorare servizi e controlli, stangare pesantemente (anche con il carcere) i grandi evasori. «Da noi» lamenta «non c’è alcuna certezza della pena e addirittura si sfornano continuamente norme per aggiustare, patteggiare, rateizzare, scontare». Per i nostalgici delle manette agli evasori, l’ultima a finire in carcere fu la povera Sofia Loren, che nel 1982 si fece 18 giorni di galera (e le responsabilità furono poi attribuite al suo commercialista).

«Ma il sistema italiano ha incongruenze pazzesche» insiste Carlomagno. «Sull’oro per esempio non c’è l’iva, ma sul latte in polvere per neonati l’iva è al 21 percento. Del resto, se la statistica mi dice che la mia azienda viene controllata una volta ogni 12 anni, è normale che uno rischia e comunque, anche se viene scoperto, alla fine ci guadagna comunque». Massimo Romano è uno che la macchina dello Stato la conosce bene, perché è stato direttore dell’Agenzia delle entrate sotto il governo Prodi. Era lui il braccio armato di Vincenzo Visco, spauracchio di molti evasori: «In termini fiscali» dice «il nostro sistema è pieno di troppe regole, troppo complicate. Il Parlamento da decenni si esercita a formulare provvedimenti che l’amministrazione non è in grado di applicare».

Il vizio d’origine insomma è un ordinamento ipocrita, con le regole formali di un tipo ma la pratica sostanziale diversa. «L’impostazione del legislatore» dice Romano «è sempre quella dell’accordo, trionfa la cultura levantina della mediazione, della trattativa. Così il cittadino dice: se mi beccano, poi troverò un’intesa. E poi la politica non è credibile perché l’Italia recente è quella dei condoni, dello scudo fiscale e il cittadino non è disposto a darle più fiducia» .Quella delle troppe regole è tra le risposte più frequenti alla domanda sul perché sia tanto difficile adempiere l’obbligo di pagare le tasse.

Dice Livia Salvini, ordinario di diritto tributario alla Luiss di Roma: «Nel 2011 sono stati emanati due provvedimenti fiscali al giorno. Provate a immaginare centinaia e centinaia di provvedimenti in un anno, che si aggiungono a tutti gli altri esistenti. Per pagare le tasse bisogna conoscerli, quindi si deve ricorrere a un esperto, cioè a un commercialista. E questo si trasforma in un costo aggiuntivo, che certamente non aiuta. Il risultato? Pressione fiscale eccessiva, troppe norme e costi alti a confronto con quasi tutti gli altri paesi del mondo dove tutto è più semplice e quindi più efficace».

Mentre la macchina dell’amministrazione pubblica viene messa sotto accusa, l’Agenzia delle entrate esibisce i risultati ottenuti con il lavoro investigativo dei suoi funzionari e di quelli della Guardia di finanza: nel 2011 sono stati incassati 12,7 miliardi di euro (il 15,5 percento in più rispetto al 2010). Ma non tutti si esaltano per questi dati.

Mariano Bella, direttore dell’ufficio studi della Confcommercio, è scettico sia sui numeri che sull’impatto mediatico: «Innanzitutto bisognerebbe fare una valutazione dei costi e dei benefici di questa azione di recupero dell’evasione; e poi ho l’impressione che i blitz nei negozi che non rilasciano gli scontrini rimangano episodi isolati che non producono alcun effetto di deterrenza. Ciò che potrebbe modificare il comportamento degli evasori è la percezione di un rialzo delle probabilità di essere controllati».

Uno degli altri grandi problemi del difficile controllo fiscale è la frammentazione del tessuto produttivo italiano. Dice Raffaello Lupi, ordinario di diritto tributario all’Università Tor Vergata a Roma: «Il parrucchiere francese evade esattamente come quello italiano. La vera anomalia è nel numero di lavoratori autonomi o di piccole e piccolissime imprese. In Italia lo Stato ti vessa quando gli capiti sotto: in caso contrario, hai la percezione che non ti segue, che non si occupadi te. Il motto dell’italiano medio è: spero di non essere visto e, se mi vedono, troveremo il sistema per metterci d’accordo».

In Germania la lotta all’evasione frutta solo 1 miliardo di euro all’anno: non perché gli investigatori tedeschi siano meno bravi, ma perché lavorano sul futuro. «Da loro» spiega Lupi «ti beccano e ti dicono: se non ti metti in regola, l’anno prossimo ti chiudiamo l’attività. E poi lo fanno, sul serio. Da noi invece nessuno decide niente. Perché il funzionario e il politico ragionano così: se va bene è merito della legge, ma se va male se la prenderanno con me, tutti mi staranno addosso, perderò i voti, non farò carriera; e allora meglio star fermi, perché come dice il proverbio “chi non fa non falla”».

Alla Guardia di finanza non sono d’accordo. Secondo le Fiamme gialle l’italiano da volpe si sta trasformando in lepre. Cioè da «furbo» a «preda». Lo dimostrerebbero i numeri dei controlli sull’emissione di scontrini fiscali (7.849 esercizi irregolari su 20.634 controlli effettuati da gennaio 2012 a oggi, una media del 38 per cento) e anche l’incremento delle chiamate al numero-denuncia 117 dove aumentano le segnalazioni dei cittadini che fanno un po’ la spia sulle abitudini d’infedeltà fiscale del vicino.

«La pubblicità che viene data ai blitz della Finanza è utile» dice ancora la professoressa Salvini dell’Università di Roma «perché fa da deterrente e sensibilizza i cittadini, fa entrare nella mentalità dell’italiano medio che, se l’evasore occupa il posto all’asilo che spetta a suo figlio, è giusto perseguirlo. Però bisogna pure vedere quanta gente non paga le tasse perché non ha i soldi per farlo».

Proprio come quell’imprenditore di Firenze che ai primi d’agosto ha dichiarato in tribunale che nel 2007 non aveva potuto versare l’iva dopo una vita di irreprensibile fedeltà fiscale perché l’uscita di quei soldi avrebbe significato il fallimento. Il giudice lo ha assolto perché «alla base della punibilità mancano quegli elementi di volontà e coscienza di compiere il reato». Insomma è stato riconosciuto all’onesto contribuente in difficoltà di non essere un evasore, ma un imprenditore da difendere e tutelare.

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Fabrizio Paladini