Andrea Carandini: cari economisti, volete ridurre lo spread? Andate all’opera
"L’Italia tornerà a crescere solo se saprà mescolare produttività e cultura": parola di un archeologo che vive "mediando il passato con il presente per costruire il futuro"
"Qui visse il senatore Luigi Albertini (1871-1941), creò il Corriere della sera da cui venne estromesso dal fascismo nel 1925, scrisse sulla vita politica italiana, fondò la Bonifica di Torre in Pietra": la targa sul cancello a due passi dal Quirinale è già un avvertimento, per dire che oltrepassata la soglia del palazzo in cui vive Andrea Carandini (l’archeologo di fama che di Albertini è il nipote) si respirerà ancora quel sogno borghese di un’Italia liberale in cui "la cultura non è la ciliegina sulla torta, ma la torta stessa dell’Italia futura: per la crescita economica, per la promozione della dignità umana" come dice ora l’archeologo dall’angolo di un elegante divano bianco.
Eppure professore, queste rischiano di essere solo belle parole. In un anno non è cambiato nulla. Nel 2011 lei lasciava il consiglio superiore dei Beni culturali in polemica con i tagli, i crolli di Pompei, lo spauracchio di una discarica a due passi da Villa Adriana. Oggi i muri continuano a crollare, il Mibac ha sempre meno soldi, e tutti polemizzano con gusto sulla nomina di Giovanna Melandri al Maxxi senza domandarsi però cosa ci sia dentro a quel museo. Perché in Italia a nessuno importa della cultura?
Perché siamo in un mondo postindustriale, dove la cultura dovrebbe contare, ma per la quale ancora non c’è spazio.
Si spieghi.
Nel mondo degli artigiani c’era una conoscenza legata al fare. Con l’industrializzazione poi la conoscenza si era in gran parte dissolta. Gli operai potevano essere ignoranti e produttivi al tempo stesso, ma la borghesia no: aveva bisogno di ampie conoscenze per crescere e arricchirsi. Oggi cultura e produzione tendono nuovamente a ricomporsi.
Vuole dire che la borghesia non ha più a cuore la cultura?
La borghesia non esiste più. I nostri tecnici al governo sembrano borghesi, ma non lo sono. La vecchia borghesia aveva ereditato dall’aristocrazia il dilettantismo, cioè il piacere di interessarsi di tutto. Non esistevano avvocati che si occupassero solo di leggi. I professionisti andavano all’opera, frequentavano musei, leggevano romanzi. Oggi i nostri economisti sanno tutto di economia ma il loro sapere sembra fermarsi lì.
Non ha una buona opinione del governo Monti?
Quando ci siamo trovati davanti al baratro ci serviva una soluzione specialistica, per non precipitare. Era l’emergenza. Ma d’ora in poi su questa stretta via non possiamo proseguire. I tecnici non sembrano in grado di pensare all’Italia nel suo complesso, verso la crescita. Occorre ritrovare l’ardore di pensare in grande, altrimenti non saremo nemmeno in grado di produrre in grande.
Cosa c’entra la cultura con il pil?
La cultura non ha fini al di fuori di sé. È un luogo di piacere, l’unico in cui siamo totalmente liberi di ricordare mondi passati e immaginarne di nuovi. Ma, allo stesso tempo, questo universo ludico è in grado di fecondare la vita ordinaria, anche nella produzione.
Può fare un esempio concreto?
Nel mondo dei servizi la creatività è tutto. Oggi non si vendono solo oggetti ma anche simboli. Prenda Eataly, la catena alimentare che punta tutto sulla qualità non ha certo inventato i broccoli; ha inventato però un modo di rappresentarli culturalmente. La cultura può irrorare mente e merci. Ha visto le Olimpiadi? L’Inghilterra non è certo l’impero di un tempo, ma nella cerimonia di apertura dei giochi ha saputo imporsi al mondo raccontando la sua gloriosa storia, per simboli. L’Italia ha una storia infinitamente più ricca, potrebbe agire similmente ogni giorno davanti al globo, ma lo fa stentatamente. Bisognerebbe fare come Eataly: dare valore ai beni culturali.
E invece a gestire la cultura ci mettono i manager...
Ma non hanno un sapere sufficiente. Oggi occorre intrecciare sapere storico, artistico, gestionale, informatico. Prima di arrivare alla Fiat, Sergio Marchionne nulla sapeva di auto. Poi ha appreso sull’argomento. E lo stesso potrebbe fare probabilmente un manager alla guida di un’impresa di calzature. Per la cultura è molto più difficile. È ormai chiaro che nel mondo culturale una managerialità separata dalle competenze non ha esiti soddisfacenti.
Come giudica l’operato del ministro Lorenzo Ornaghi?
È stato fortunato: il suo predecessore Sandro Bondi è stato crocifisso perché a Pompei crollavano i muri. Ora i muri continuano a crollare, ma Ornaghi sulla croce non l’ha messo nessuno (né gli auguro di finirci). Ma al di là delle battute, il problema è più generale: il progetto culturale non dovrebbe investire un singolo ministro ma un intero governo.
In che modo?
Il Mibac è necessario, se in grado di operare, ma non può essere disgiunto dalle questioni legate all’ambiente e al turismo. La conservazione dei monumenti dovrebbe essere materia condivisa anche con i ministeri dell’Agricoltura e dei Lavori pubblici. E come non inserire poi tutto questo nell’ambito dello Sviluppo economico? Non ci sono altre strade: la politica culturale dev’essere una stessa cosa con la politica di sviluppo dell’intero Paese. Certo, Monti la parola cultura credo non l’abbia neppure pronunciata, e ciò non conforta. Ma nessun governo fino a ora ha mai nemmeno abbozzato una politica culturale integrata nel contesto italiano.
Non c’è speranza?
Non c’è prospettiva, visione.
Dunque?
Dunque io faccio l’archeologo, e vivo mediando il passato con il presente per costruire il futuro. Se mi si leva il passato con l’oblio e mi si toglie il futuro trattando di solo spread, allora io sono un uomo morto. E il Paese neppure sta bene.
L’Italia ce la farà a ripensare una politica culturale?
Solo se nascerà una classe dirigente capace di considerare che il nostro Paese eccelle quando sa mescolare cultura e produttività, quando è creativo. Per il momento invece non riusciamo nemmeno a conservare il patrimonio che il mondo ci invidia. Il Mibac può contare su un budget di circa 86 milioni di euro per l’anno prossimo. È la metà della cifra che servirebbe per fare la Grande Brera, invece deve bastare per mantenere siti archeologici, beni artistici (circa 4.200 musei, ndr) e monumentali, archivi, biblioteche... Sembra inoltre che si perdano 30 soprintendenti e – orrore! – che si voglia estendere il condono del 2003 anche ad aree e immobili vincolati. Viviamo in una casa in rovina e non ce ne curiamo, come se quella rovina non fosse anche la stessa rovina nostra.
Quando ce ne accorgeremo?
Non lo so. Forse quando ci pioverà in testa. Come avviene da sempre nella Domus aurea.
Lei ha firmato il manifesto "Verso la Terza repubblica" promosso da Luca di Montezemolo e rivolto a cattolici e moderati. Cosa l’ha persuasa ad aderire?
Non ho aderito al movimento, solo all’iniziativa del 17 novembre (una convention a Roma promossa da Italia Futura e da una serie di personalità del mondo politico e culturale, ndr). Ricordavo la bella manifestazione culturale di Montezemolo al Teatro Argentina. Seguo i movimenti dell’Italia più ragionevole, con particolare riguardo al centro e alla sinistra.