10 luglio 1943: la libertà 
dell’Italia
comincia da sud
(Getty Images)
Come Eravamo

10 luglio 1943: la libertà dell’Italia comincia da sud

Lo sbarco degli Alleati in Sicilia dà la spallata al potere di Benito Mussolini, che aveva legato il destino del Paese alla Germania hitleriana. E sull’isola emersero in modo drammatico le carenze del nostro esercito.

Francamente, non era necessario attendere che Pantelleria si arrendesse (11 giugno 1943) per comprendere che la guerra dell’Italia fascista stava precipitando sul piano inclinato della sconfitta.

Tuttavia, la capitolazione dell’isola «imprendibile» offrì l’immagine - esteticamente vistosa - della sconfitta imminente. Fu come togliere il piedestallo dal castello di carte perché l’intera impalcatura precipitasse: un pezzo per volta.

Senza soluzione di continuità, tempo quattro settimane, il 10 luglio, gli americani sbarcarono in Sicilia muovendosi con la scioltezza che avrebbero messo in mostra nel corso di una parata dimostrativa. Il 25 luglio Benito Mussolini, messo in minoranza dal Gran Consiglio, fu costretto a presentarsi dimissionario al re Vittorio Emanuele III che lo fece arrestare.

L’8 settembre – seguito all’armistizio di Cassibile - venne annunciato che l’Italia non combatteva più con i tedeschi contro gli alleati ma, al contrario, che si schierava con i nemici per combattere gli ex amici. Mussolini, liberato da un commando della Luftwaffe - non si sa con quanta convinzione - continuò la guerra al fianco di Hitler con i fascisti - arrabbiatissimi - che gli erano rimasti fedeli, contro gli americani ma anche contro gli italiani che avevano scelto di dargli addosso. Fu un calvario di violenze che attraversò un’altra quindicina di mesi fino al 25 aprile 1945, quando finì tutto. E finì per davvero.

Ma, di questo, Pantelleria rappresentò il prologo dell’ultimo capitolo. L’isola era considerata un baluardo imprendibile. Il fronte meridionale era senza spiagge e il costone di roccia abbastanza a picco poteva dare l’impressione di un frangiflutti, capace di rompere anche l’onda d’urto di un esercito lanciato all’assalto. E le 54 batterie costiere, posizionate sull’orlo del bastione, avrebbero dovuto scoraggiare iniziative bellicose.

In realtà, la difesa soffriva della disorganizzazione che attraversava per intero i reparti italiani e li rendeva inefficienti. Le bocche da fuoco potevano servire come oggetti d’arredamento: metà non funzionava e l’altra metà disponeva di una riserva di proiettili sufficienti per una dozzina di ore di combattimento. Pure i soldati erano dotati di un armamento approssimativo con un morale che era andato calando fin sotto i tacchi.

Fra tutti, serpeggiava la convinzione che non ci fosse più nulla da fare: resistere con le armi in pugno significava soltanto allungare un’agonia di per sé già abbastanza dolorosa. Di uomini, ce n’erano tanti - 11 mila - al punto da meravigliare gli stessi anglo-americani. Il premier britannico Winston Churchill era convinto che, sull’isola, non ce ne fossero più di tremila al punto da accettare una scommessa con il generale Dwight Eisenhower. Per ognuno, oltre la sua stima, s’impegnava a pagare un centesimo di dollaro. Vinse «Ike» a mani basse che non rinunciò a riscuotere gli 82 biglietti verdi della posta in gioco. Prima che fucili e munizioni era l’acqua che mancava agli uomini. I pozzi erano stati bombardati e, con il caldo del Sud, il razionamento si faceva dolorosamente sentire.

A leggere il diario del generale Giacomo Zanussi, un reparto del Genio, di stanza a Trapani, riuscì a recuperare in Sicilia cinque distillatori, a mettersi in mare e a raggiungere l’isola d’Italia più vicina all’Africa. Ma, non si sa per quale ragione, nel senso che l’autore del testo - Guerra e catastrofe d’Italia. Giugno 1940-Maggio 1945 - non lo spiegò, ritornarono indietro senza nemmeno tentare di approdare sull’isola. Gli anglo-americani non rischiarono un assalto con la fanteria. Cominciarono con una serie di bombardamenti che dettero la misura della loro forza. Il 7 giugno Pantelleria fu sommersa da 5 mila tonnellate di tritolo.

Resistere? Quando i primi mezzi da sbarco incresparono la linea dell’orizzonte, il comandante della piazzaforte, l’ammiraglio Gino Pavesi, chiese a Mussolini l’autorizzazione ad arrendersi e poi ordinò la resa. La presa di Pantelleria avvenne ordinatamente. Gli alleati lamentarono due feriti perché una batteria italiana - erroneamente - sparò un colpo. Il tiro era troppo corto e i due soldati furono colpiti soltanto da una scheggia di risulta provocata dall’esplosione del proiettile. Gli assalitori non reagirono, compresero l’equivoco e non cercarono rivincite.

Ci scappò un morto fra gli italiani ma non per il combattimento. Il rinculo di quel cannone, entrato in azione per sbaglio, fece imbizzarrire un mulo che, scalciando, sfondò il petto di un artigliere. A dispetto della disparità di forze in campo, la resa di Pantelleria sembrò umiliante per il modo imbelle in cui era avvenuta. Secondo il vice segretario del Partito fascista Alfredo Cucco «suonò come una scampanellata al cancello». Anche perché - non era difficile prevederlo - la perdita di quel baluardo difensivo avrebbe aperto le porte per l’invasione della Sicilia. Anche Mussolini si trovò senza argomenti. Al Direttorio del Partito del 24 giugno 1943 pronunciò un discorso che, sotto l’ostentata sicurezza, tradì l’imbarazzo di un disagio difficile da mascherare.

Il senso di scoramento fu tale che, contrariamente all’abitudine, quell’intervento non venne reso pubblico. Solo in un secondo momento, rendendosi conto che quell’autocensura avrebbe avuto ripercussioni anche più negative, Mussolini rimaneggiò qualche passaggio del suo intervento e lo affidò ai giornali per la pubblicazione (il 5 luglio).

C’erano dei dubbiosi - riconobbe il Duce - e non c’era da meravigliarsi. Analoghe incertezze albergavano anche fra i 12 apostoli di Gesù che aveva avuto il tempo di coltivarseli, uno a uno, per tre anni. «Un giorno» aggiunse « dimostrerò che questa guerra non si poteva evitare: pena il nostro suicidio». Ma, a quel punto, occorreva mettersi sulla difensiva. Sentenziò: «Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare in Sicilia sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del bagnasciuga dove l’acqua finisce e comincia la terra». Subito gli rimproverarono - a lui ormai si rimproverava tutto - l’uso improprio del termine «bagnasciuga» che, nel gergo marinaresco ha un altro significato. E, comunque, altro che quello lessicale, di per sé trascurabile, il vero errore di Mussolini consistette nel ritenere che si potesse reggere ancora il peso della guerra.

«Oggi» proclamò «il nemico si affaccia ai termini sacri della patria ma trova 46 milioni di italiani (meno trascurabili scorie) che sono, in potenza e in atto, 46 milioni di combattenti». Forse non ci credeva nemmeno lui. A difendere i confini dell’Italia non c’erano nemmeno quelli che avevano scelto di farlo per mestiere.

In Sicilia, le forze militari erano rappresentate da circa 230 mila uomini. I più erano siciliani che la vicinanza alle famiglie esponeva alla tentazione di badare alla propria casa, più che alla difesa del pezzo di spiaggia di competenza. Comunque, proporzionalmente erano meno del contingente che avrebbe dovuto proteggere Pantelleria.

Il generale Mario Roatta, in una descrizione accurata, specificò che i reparti erano distribuiti «uniformemente sulla costa in modo che la densità era di 36 uomini per chilometro». Si trattava di un sottilissimo velo di protezione, poco più che un’avanguardia di sentinelle. Sarebbe stato necessario un contingente assai robusto in grado di accorrere dove necessario ma le quattro divisioni di riserva (la Livorno, la Napoli, l’Aosta e l’Assietta) non erano - secondo il linguaggio militare - «autocarrate» e dovevano muoversi a piedi. E non giovò la girandola di funzionari e comandanti militari.

Il generale Vittorio Ambrosio, nominato Capo di Stato Maggiore, volle come «vice» il generale Edmondo Rosi che comandava la Sicilia e che venne spostato nel momento meno indicato. Al suo posto, dirottato dalla Jugoslavia, fu inviato Roatta che ci rimase tre settimane per essere rimpiazzato dal generale Alfredo Guzzoni, riesumato dalla riserva dove l’avevano collocato per toglierselo dai piedi. Lo descrissero come «piccoletto, grassottello e rotondetto» con la fama di essere un «politicante ambizioso senza competenze militari».

Nel momento più delicato, quando lui già si riteneva in pensione, lo scaraventarono nel settore maggiormente esposto del fronte meridionale. Dal comando territoriale di Enna si trattava di fronteggiare la formidabile macchina da guerra degli yankee. Che si presentò con 2.800 navi e mezzi da sbarco, 160 mila uomini e 600 carri armati.

Per gli attaccanti, non ebbe conseguenze negative nemmeno l’incidente dei 3.400 paracadutisti che dovevano rappresentare il primo contingente d’assalto ma che si dispersero per decine di chilometri, spintonati lontano da un vento eccezionalmente impetuoso.

Gli italiani non combatterono. O fecero solo finta di farlo. Gli americani sbarcarono il 10 luglio 1943 e il 12 era come se fossero tornati a casa dopo un periodo più o meno lungo di assenza.

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Lorenzo Del Boca