I problemi (politici) in Europa che frenano il tetto al prezzo del gas

Partiamo da qualche certezza. Per la Russia, il mercato di gran lunga maggiore per le esportazioni di idrocarburi è e resta l’Europa, verso cui prima della guerra Mosca piazzava ben l’80% del gas globalmente esportato e il 50% del petrolio grezzo o raffinato. Già questo dovrebbe aiutare a comprendere l’importanza capitale che l’Unione Europea e, più in generale, il nostro continente riveste per una mono-economia come quella della Federazione guidata da Vladimir Putin, che ancora oggi basa la propria bilancia economica proprio sull’esportazione di questi fossili.

L’uso del gas come arma negoziale da parte del Cremlino è dunque – adesso più che mai – il perno intorno al quale ruotano le sue strategie diplomatiche nei confronti di Bruxelles, i cui progressivi interventi sanzionatori seguiti all’invasione dell’Ucraina hanno rotto un equilibrio storico su cui Mosca aveva sempre potuto contare per alimentare le casse dello Stato.

In ragione di ciò, per rispondere alla diversificazione delle fonti energetiche promossa dai Paesi membri, il Cremlino intende impedire che questi si coalizzino seguendo dei comportamenti univoci e negoziando con una sola voce (come suggerisce, ad esempio, Mario Draghi). Perché, in questo modo, il potere negoziale in mano a Bruxelles sarebbe enorme: se il suo miglior cliente imponesse le proprie condizioni di fornitura in maniera compatta e coesa, Mosca non avrebbe altra possibilità che acconsentire ai desiderata europei, pena il ritrovarsi a essere un grande fornitore ma senza compratori.

Tanto per capire i volumi, la Russia per diversificare potrebbe arrivare a piazzare fino a 16 miliardi di metri cubi all’anno in Cina attraverso il suo oleodotto siberiano, ma sono comunque un’inezia in confronto ai 200 miliardi di metri cubi all’anno che normalmente vende all’Europa.

Ecco perché la Russia punta a frammentare le cancellerie europee, seguendo l’antico adagio del divide et impera. Sa che soltanto innescando dei comportamenti indipendenti potrà far breccia nelle contraddizioni economiche di cui l’Europa è notoriamente schiava, stimolando i sovranismi e soluzioni ad hoc per ogni singolo Paese che intenda continuare ad acquistare da Mosca. E del resto sinora ha sempre avuto gioco facile in questo, consapevole che i distinguo sono una delle caratteristiche principali dell’Unione, e una delle ragioni che rendono l’Ue debole agli occhi tanto della Russia quanto della Cina e degli stessi Stati Uniti.

Come sottolinea l’economista Giorgio Arfaras, «un Paese che dipende dal gas russo e che ha un gran settore industriale energivoro è in una situazione ben diversa da quella di chi dipende poco dal gas russo e ha un gran settore dei servizi. Un comportamento solidale tra questi due Paesi non è facile da perseguire». Ma di chi stiamo parlando esattamente?

Indovinare quali siano le diverse posizioni in seno all’Europa è piuttosto semplice. Tralasciando piccole realtà extra Ue come Macedonia del Nord, Bosnia Erzegovina e Moldavia, che dipendono al 100% dal gas russo, i maggiori clienti di Mosca facenti parte dell’Unione sono: Finlandia (94%), Lettonia (93%), Bulgaria (77%), Germania (49%), Italia (46%), Polonia (40%) e Francia (25%). E sono anche gli stessi Paesi che rischiano di più da un’interruzione ex abrupto di gas. Ed è proprio su queste realtà che Mosca punta per tentare di modificarne le politiche energetiche.

Tetto al prezzo del gas

Intanto, però, il cosiddetto «anno termico» – che inizia a ottobre e finisce a settembre dell’anno successivo – è alle porte e i cittadini e le aziende europee attendono risposte immediate dai propri governi, visto che il prezzo del gas è schizzato fino alla cifra monstre di 300 euro al megawattora (il mercato di riferimento è quello del metano di Amsterdam), facendo lievitare il prezzo di dieci volte rispetto allo scorso anno.

Il governo italiano ha spinto più di ogni altro a livello europeo per avere un tetto massimo – l’ormai noto price cap – al prezzo del gas russo che importiamo da Mosca, ma la Commissione europea sinora non è riuscita a trovare un accordo per limitare al massimo a 90 o 100 euro al megawattora il costo. La Repubblica Ceca, che ha la presidenza di turno dell’Ue, verosimilmente indirà prima di ottobre un vertice straordinario sul tema.

Mario Draghi voleva ottenere il via libera al price cap europeo prima di salutare Palazzo Chigi, ma non gli è stato possibile finalizzare la proposta. A opporsi alla linea di Roma sono stati soprattutto i Paesi del Nord Europa, Olanda in testa, che non intende venir meno alla liberalizzazione del mercato dell’energia. E questo per due ragioni principali: i Paesi Bassi sono un produttore di gas e, come detto, qui ha sede il principale mercato Ue dell’energia. La Germania, invece, dopo l’incubo per le sue aziende di vedersi aprire e chiudere a singhiozzo le forniture di gas russo, si sta indirizzando sempre più verso la linea italiana, e con essa anche Francia, Grecia, Spagna, Portogallo. Con questi ultimi due che hanno già introdotto un proprio modello autonomo.

L’eccezione iberica e gli altri modelli

La Commissione europea, per adesso, è proprio a far suo il modello già varato da Spagna e Portogallo: un meccanismo temporaneo della durata di 12 mesi, che nel primo semestre impone un tetto al prezzo del gas di 40 euro al megawattora, fino a un massimo di 70 euro nel secondo semestre. I due Paesi copriranno con i soldi dello Stato la differenza tra il tetto e il prezzo di mercato, dando così ossigeno ad aziende e privati cittadini. Tale modello è stato accolto e autorizzato dalla Commissione, che lo ha diplomaticamente battezzato «eccezione iberica», riconoscendo la condizione di isolamento quasi totale del mercato elettrico dei due Paesi rispetto al resto d’Europa.

Ma questa «eccezione iberica» pare destinata a diventare la norma, se Bruxelles acconsentirà all’introduzione di un tetto nazionale al prezzo del gas per tutti i Paesi membri, dove ciascun governo potrà stabilire il tetto e coprire con le casse statali la differenza. Su tutto, pesa l’incognita del cosiddetto «meccanismo di solidarietà», in forza del quale gli Stati membri più forti sono tenuti ad aiutare i più deboli: in un simile scenario, secondo alcuni studi economici, l’Italia potrebbe dover vendere una parte del gas a prezzo ribassato agli altri Stati.

Fuori dall’Ue, intanto, Londra attinge metà della sua fornitura di gas da fonti nazionali e importa per lo più da Norvegia e Qatar e, perciò, punta a negoziare direttamente con questi Paesi anche per il prossimo futuro. Un modello seguito in parte anche da Roma e Madrid, che si sono mosse per tempo allo scopo di legarsi stabilmente ad Algeria e Stati Uniti quali fornitori privilegiati di gas, sostituendo velocemente il partner russo; con la differenza che Roma sta anche investendo nelle perforazioni offshore mediterranee, che promettono bene secondo i dati disponibili. C’è da giurare che la scelta tra questi modelli e una loro ibridazione sarà materia di campagna elettorale in Italia.

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