Sembravano l’alba di una nuova epoca della democrazia. Prima in Tunisia, e poi in Libia, Egitto, Siria, Arabia Saudita… Rivoluzioni represse o abortite, che hanno provocato conflitti sanguinosi e la nascita dell’Isis. Eppure, tra le popolazioni del Medio Oriente, la parola «libertà», sembra non essere più un concetto vuoto.
A dicembre saranno passati dieci anni da quando Muhammad Bouazizi, venditore ambulante di frutta di 26 anni, si dava fuoco in un paesino del Sud povero della Tunisia. La sera del 16 Bouazizi era molto soddisfatto della merce appena comprata. La mattina dopo, con il carretto, andò al mercato per venderla. Ma la poliziotta Feyda Hamdi lo schiaffeggiò davanti a tutti perché senza licenza e gli portò via la merce. Bouazizi, umiliato, le disse: «Perché mi fai questo? Voglio solo lavorare». Poi si uccise.
Era la scintilla che avrebbe incendiato il mondo arabo, in una primavera di speranze di riscatto e democrazia. Il presidente «a vita» Zine El-Abidine Ben Ali invitò la madre del ragazzo nel suo palazzo e davanti alle telecamere le consegnò un assegno di 20.000 dinari (10.000 euro). Che si riprese a cineprese spente. Nel frattempo le manifestazioni divennero sempre più imponenti e il 14 gennaio il dittatore e la sua famiglia fuggirono in Arabia Saudita.
Ben Ali era solo il primo. Le primavere arabe avrebero rovesciato, in pochi mesi, gli autocrati di tutto il Medio Oriente. Dalla Tunisia le proteste si estesero a Libia, Egitto, Yemen, Siria, persino al Bahrein. Nel primi mesi del 2011 l’epicentro divenne Il Cairo, la mitica piazza Tahrir, «della liberazione». Un milione di persone, giovani, laici, musulmani, cristiani.
Sembrava l’alba di una nuova era, ma conteneva già i germi del fallimento. Il 18 febbraio 2011 arrivò nella piazza stracolma lo sceicco Yusuf Qaradawi, punto di riferimento ideologico dei Fratelli Musulmani. Tenne il sermone della preghiera del venerdì, il suo primo dopo 30 anni, dopo la destituzione del raiss Hosni Mubarak. «Il mondo arabo è cambiato» scandì davanti alla folla entusiasta.
Il problema era il tipo di «cambiamento». Nelle elezioni presidenziali del 2012 vinceva Mohammed Morsi, il candidato della Fratellanza. Un leader poco incline ai compromessi, deciso a reintrodurre la sharia. Il 3 luglio 2013 Morsi veniva deposto da un colpo di Stato militare dell’allora ministro della Difesa Abdel Fattah al-Sisi. Le forze laiche e l’esercito si mostravano ancora padroni del Paese. Migliaia di persone arrestate, le proteste represse nel sangue.
«Se guardiamo ai risultati, le primavere arabe hanno fallito» dice a Panorama Karim Mezran analista dell’Atlantic Council di Washington. «Non c’è stata liberalizzazione delle strutture politiche. Non sono diventate più pluraliste e trasparenti. Non è accaduto né in Libia né in Egitto. In Algeria c’è stata un incremento minimo della partecipazione popolare, in Marocco è stata avviata una piccola riforma costituzionale ed è arrivato al potere un partito islamista. Niente di più».
In quel 2011 però le speranze erano molte. In ottobre Mu’ammar Gheddafi fu rovesciato, torturato e giustiziato. Ma la Libia è sprofondata in una terribile guerra civile. Da allora due governi opposti si contendono la guida del Paese e uno, quello di Tripoli di Fayez Al-Serraj è sostenuto dalla Fratellanza e dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
La Siria imboccò un percorso simile, ma il raiss Bashar al-Assad ha resistito, con l’aiuto di iraniani e russi, anche se il conflitto è diventato via via più sanguinoso: oggi si contano almeno 340.000 morti. I ribelli si sono trasformati in jihadisti, ed emerse il mostro dell’Isis, un califfato governato dalla legge islamica, in gran parte di Siria Iraq, il movimento politico e religioso più violento dei tempi moderni.
Anche la guerra civile in corso nello Yemen può essere fatta risalire alla Primavera araba. La battaglia si è trasformata in una guerra tribale tra i ribelli Houthi, alleati dell’Iran, e la coalizione a guida saudita che sostiene il governo di Abd Rabbih Mansur Hadi, riconosciuto a livello internazionale. Anche in questo Paese la rivolta ha portato alla destituzione del presidente Ali Abdallah Saleh, ucciso poi nel 2017 dagli Houthi.
Nelle rivolte popolari si inserisce anche lo scontro settario fra musulmani sciiti e sunniti. In Bahrein, nella capitale Manama, le proteste pacifiche del 2011 e 2012 a favore della democrazia – portate avanti dalla maggioranza sciita oppressa da una monarchia sunnita – furono represse dal governo del re Hamad bin Isa Al Khalifa, con l’aiuto di Riad.
La stessa Arabia Saudita ha visto manifestazioni dei suoi due milioni di sciiti che chiedevano la liberazione dei detenuti politici, come il religioso sciita Nimr al-Nimr poi condannato a morte nel 2016. Di queste «primavere arabe» minori si sa poco. Non sono insanguinate come la guerra civile siriana, ma anche qui milioni di cittadini hanno chiesto libertà e uguaglianza.
L’Iraq invece è riuscito a resistere alla tempesta dell’Isis, e la democrazia sembra sopravvivere nonostante proteste molto dure. Lo scorso novembre si è arrivati alle dimissioni del primo ministro Adel Abdul Mahdi. La Turchia ha guardato da bordo campo, spesso sostenendo le rivolte, ma è sopravvissuta indenne.
Le proteste, conosciute come seconda primavera araba, si sono poi ripetute nel 2018-2020 in Marocco, Tunisia, Giordania, Sudan, Algeria, Egitto, Iraq e Libano. In Sudan hanno provocato il rovesciamento del dittatore Omar al-Bashir. In una «tarda primavera» in Libano ci sono state manifestazioni contro l’élite al potere nel centro di Beirut, in autunno, che hanno spinto alle dimissioni dell’esecutivo di Saad Hariri. Ora sono riprese con virulenza, dopo l’esplosione del 4 agosto scorso al porto della capitale, e hanno portato alla caduta del governo del premier Hassan Diab, vicino al partito sciita Hezbollah.
«Le masse sono entrate in politica. Nel futuro la società civile potrà essere più organizzata e sarà più difficile reprimerla» commenta ancora Mezran. «Il processo di apprendimento è iniziato. Nessuno è preparato alla democrazia, ma un certo linguaggio è penetrato tra la gente. Trasparenza e pluralismo non sono più concetti vuoti. La teoria secondo cui gli arabi possano essere governati soltanto da regimi autoritari viene diffusa dalle élite arabe stesse per giustificare il loro potere».
È stata proprio la Tunisia, dove tutto è iniziato, a cercare di sfatare questo destino. La rivoluzione dei gelsomini ha portato a un sistema multipartitico, una democrazia imperfetta. La maggior parte dei tunisini giudica i risultati dall’andamento dell’economia. E non sono buoni. Il governo prevede che il deficit quest’anno arrivi a circa il 7% del Pil a causa della pandemia; l’economia dovrebbe contrarsi del 6,5%. La Tunisia era in trattativa con il Fmi per un prestito, ma è stato sospeso.
Hichem Mechichi (ottavo primo ministro tunisino in 10 anni) vuole ora formare un governo di tecnocrati. Mentre il leader del partito islamista Ennhada, Rachid Ghannouchi, ha litigato con il presidente Kais Saied. Alcuni analisti fanno notare che Ennhada ha acquisito i tratti dei vecchi autocrati. Ghannouchi, che ha 79 anni, guida il partito da 50 anni. L’unico eroe che unisce tutti è il povero venditore ambulante, Bouazizi. Gli è stato assegnato il premio Sakharov per la libertà di pensiero, è stato scelto come persona dell’anno dal quotidiano britannico The Times, e il governo tunisino gli ha dedicato un francobollo. Ora però si avvicina l’anniversario della sua morte. I politici minimizzano l’evento, il popolo lo maledice. C’è aria di nostalgia per il passato e, pare strano, persino per il dittatore Ben Ali.