Il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha utilizzato le violenze di piazza per azzerare i poteri del padre-padrone del Paese Nazarbaev e imporre un clan di fedelissimi, con l’appoggio di Mosca e di Pechino. Ma queste convulsioni sono il campanello d’allarme delle tensioni geopolitiche che percorrono l’intera area delle ex repubbliche sovietiche.
Le violenze scoppiate in Kazakistan sono riconducibili essenzialmente alle mire di due attori principali: uno di questi è il presidente in carica, l’altro è il padrone della Federazione russa. Kassym-Jomart Tokayev ha colto l’occasione dei disordini, dovuti al caro vita e all’aumento del prezzo del gas, per compiere un vero «parricidio»: eliminare ogni residuo di potere del leader della nazione ed ex presidente Nursultan Nazarbaev, per trent’anni padre-padrone del Kazakistan, allo scopo di mettere al potere esclusivamente il suo clan di fedelissimi. Un’operazione di pulizia politica dell’ex dirigenza e dei boiardi di Stato per tutelare il proprio status e imporre un nuovo corso filo-russo e filo-cinese, in contrapposizione agli equilibrismi del suo predecessore. Da qui la richiesta di soccorso militare lanciata da Tokayev al Cremlino, e sostenuta apertamente anche da Pechino, che plaude alla mossa del presidente kazako.
Sono circa 2.000 i soldati inviati a sedare le rivolte del Csto, l’alleanza militare guidata dalla Russia di cui fanno parte sei Repubbliche ex sovietiche (oltre alla Russia, ci sono Kazakistan, Armenia, Bielorussia, Kirghizistan e Tagikistan). L’altra figura centrale in questa vicenda è l’immancabile Vladimir Putin. Come noto, il presidente russo sogna da tempo di ricostruire un’Unione sovietica «rivisitata», dove la Russia rappresenta il perno e centro propulsore di un nuovo impero antitetico all’Occidente, considerato sempre più debole e distaccato dall’Oriente. E tale operazione Putin intende portarla a compimento prima del suo declino personale e prima di subire la stessa sorte di Nazarbaev, con un delfino cioè che lo neutralizzi, minandone l’autorità e confiscando le sue ricchezze.
Questo scenario è stato ben descritto del segretario di Stato Usa Antony Blinken, quanto mai lucido nell’analizzare le turbolenze della regione, piombata nel caos a partire dai rovesciamenti in Afghanistan. Blinken condivide queste osservazioni con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il quale ha introdotto anche la variabile Ucraina e la possibilità di un’invasione del Paese da parte di Mosca: «Il rischio di un nuovo conflitto è reale» ha dichiarato con toni drammatici al termine della riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dei Paesi Nato, lo scorso 7 gennaio.
«L’Ucraina in questa visione è un po’ un casus belli per spaventare con una guerra e negoziare quindi un patto che tenga lontano l’Occidente con le sue sanzioni e la sua attenzione per i diritti e le libertà» afferma la saggista Anna Zafesova, autrice del volume Navalny contro Putin (Paesi Edizioni, 2021). In sostanza, la mossa di Putin che Stoltenberg teme è funzionale al Cremlino a evitare che un Paese postsovietico, che condivide in buona parte sistemi, lingua e struttura della Russia, voglia e riesca «a diventare una democrazia che si avvicina all’Europa. Senza l’Ucraina, qualunque impero che Putin vorrà provare a ricostruire sulle ceneri dell’ex Urss sarà sempre incompleto».
Ecco perché in Kazakistan Mosca ha inviato di buon grado le proprie truppe e mobilitato persino il Csto. Affinché sia di esempio. Se ci si pensa, in effetti, ciascuno dei Paesi aderenti all’allenza militare ha i propri guai da risolvere e instabilità da gestire: l’Armenia, per esempio, è reduce dalla guerra con l’Azerbaijan per la contesa sulla regione del Nagorno-Karabakh, rivendicata da entrambi.
Agli ultimi scontri militari del 2020 – che hanno fatto oltre 5.000 morti e visto gli azeri prevalere – oggi si aggiungono nuove tensioni. Mentre il filo spinato e i chilometri di trincee restano, a riprova che qui una guerra è pronta a riesplodere in ogni momento.
Non diversa è la storia in Bielorussia: «La situazione in merito ai disordini in Kazakistan rappresenta una lezione che mostra cosa sarebbe potuto succedere nel nostro Paese» ha affermato lo stesso presidente Aleksandr Lukashenko, nel corso della prima riunione governativa del 2022.
La Bielorussia, guidata sin dal 1994 dall’amico personale di Putin, è sotto ogni punto di vista una dittatura illiberale (come non ricordare il dirottamento del volo Ryanair sui cieli dell’Ue lo scorso maggio da parte di Minsk per arrestare il dissidente politico Roman Protasevich), e la repressione qui non è meno dura che in Kazakistan: in occasione delle proteste esplose ad agosto 2020 contro l’autoritarismo e i brogli elettorali di Lukashenko alle ultime presidenziali, secondo l’Onu non meno di 35.000 persone sono state arrestate per «futili motivi» legati alle proteste.
Ma la cooperazione con Mosca – che passa per sostegno politico ed esercitazioni militari congiunte in funzione anti Nato – continua ancora oggi a garantire Minsk impunità e discrezionalità nell’esercizio della violenza. Da cui il possibile emergere di nuove proteste e altrettante repressioni nel cuore dell’Europa orientale.
Quanto a Kirghizistan e Tagikistan, preoccupano le frange locali jihadiste – le stesse che turbano i sonni di Putin in Caucaso e in Afghanistan, e di Xi Jinping nella regione cinese dello Xinjiang – perché ieri come oggi possono essere strumentalizzate, «come avvenne in Uzbekistan nella valle di Fergana oppure in Tagikistan durante la guerra civile tra clan, dove ci fu l’intervento dell’Armata rossa» ha ricordato di recente l’analista geopolitico Alberto Negri.
Il Tagikistan, in particolare, condivide con l’Afghanistan il gruppo etnico più numeroso dopo i pashtun, e proprio il coinvolgimento di milizie tagike nel nord dell’Afghanistan da parte dei talebani, che hanno fornito loro armi e attrezzature militari, lascia perplesso il governo di Emomali Rahmon, le cui difficoltà economiche e la stanchezza dopo 27 lunghi anni di permanenza al potere ne hanno minato la stabilità.
Intanto, il gruppo denominato Jamaat Ansarullah («la società dei soldati di Allah»), nato proprio con l’obiettivo di rovesciare il governo di Rahmon, si fa via via più forte e minaccioso. Quanto alla Repubblica del Kirghizistan, è il vicino povero del Kazakistan e la porta d’ingresso della Cina in Asia centrale: qui un corrotto ceto politico locale è stato assorbito dal mega progetto di Pechino per la nuova Via della seta che unirà la Cina all’Europa occidentale, mentre una tabella di marcia decennale di cooperazione con l’Iran e l’apertura del corridoio di transito Kirghizistan-Tagikistan-Afghanistan-Iran dall’Afghanistan, ne fanno un Paese legato mani e piedi ai piani geopolitici delle superpotenze regionali. Con buona pace dei suoi 6 milioni di abitanti, per il 90% musulmani, che parlano russo non meno che kirghiso, e di cui circa un terzo è composto da minoranze uzbeke, russe, uigure, tagike, turche e kazake.
Nella parte meridionale del Paese, al confine con l’Uzbekistan e lungo la mitica valle di Fergana, il terrorismo internazionale di matrice islamista ha trovato terreno sempre più fertile: oggi vi sono state costruite oltre 2.400 moschee, un centinaio di scuole islamiche e 68 centri musulmani registrati, le gravi difficoltà economiche alimentano nei giovani un forte risentimento nei confronti delle istituzioni e li conducono spesso ad abbracciare l’Islam radicale.
Del resto, tra qui e l’Uzbekistan sono attive decine di sigle jihadiste: Hizb ut-Tahrir al-Islami («Partito della liberazione islamica»), il Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu), l’Unione del jihad islamico (Iju), il Partito islamico del Turkestan (Tim), e ovviamente lo Stato islamico (Isis). Gruppi che vantano connessioni con i terroristi islamici del Kazakistan e altri che operano tanto nel Caucaso settentrionale quanto in Afghanistan (come Jund al-Khilafah, i temibili «Soldati del Califfato»): non è un caso che da quando è iniziata la rivolta ad Almaty, i sostenitori dello Stato islamico abbiano iniziato a diffondere immagini e filmati provenienti dal Kazakistan.
Comune denominatore delle minoranze più povere, siano esse radicalizzate o politicizzate, è operare con l’obiettivo del proselitismo e alimentare quelle spinte alla rivolta che sono presenti in tutti gli «stan» dell’Asia centrale; questo, in attesa che gli scricchiolanti regimi dell’ex Unione sovietica conoscano la loro fine. I sintomi ci sono tutti: resta da capire quale possa essere la cura.
