Se lo dice Renzi non è più di destra
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Se lo dice Renzi non è più di destra

Presidenzialismo, limiti alla magistratura, attacchi al sindacato. Per anni si è accusato Berlusconi di essere antidemocratico, oggi sono tutti temi sdoganati dal premier. Ed è un bene per il Paese.

Non so quanto durerà Matteo Renzi premier. È perfettamente possibile che, dopo le elezioni europee, la situazione si imballi e il nostro giovane premier sia chiamato a pagare per il suo peccato originale, o forse sarebbe meglio dire per entrambi i suoi peccati originali: quello di aver tradito Enrico Letta ("Enrico stai sereno"), e quello di aver ingannato gli elettori ("Mai al governo senza il voto popolare"). Ma è altrettanto possibile che Renzi duri l’intera legislatura, se non altro perché non è il tipo che si lascia mettere da parte senza combattere. Ed è persino possibile che di Renzi e di renzismo sentiremo parlare per vent’anni, come già ci è capitato più di una volta nella storia.

Nello scenario più negativo per lui (e a mio parere anche per l’Italia), Renzi potrebbe essere costretto a uscire almeno temporaneamente di scena senza aver realizzato quasi nulla del molto che ha promesso. Fra un anno potremmo benissimo trovarci con il bonus da 80 euro non rinnovato (al momento le coperture sono state individuate solo per il 2014), la riforma elettorale non approvata, il bicameralismo e le province ancora in piedi, i 68 miliardi di debiti della Pubblica amministrazione ancora in gran parte da pagare, il Jobs Act impantanato nel percorso parlamentare in cui Renzi stesso ha scelto di incardinarlo. E tuttavia...

Tuttavia, anche se le cose dovessero andare storte, anche se il suo governo dovesse durare meno di quello di Enrico Letta, anche se alla fine la maggior parte delle promesse di Renzi dovessero restare deluse, c’è qualcosa che non potrà essere cancellato, qualcosa che resterà a lungo, con o senza Renzi. Qualcosa di cui, a mio modesto avviso, dovremmo essergli grati.

Questo qualcosa è la piccola ma significativa rivoluzione che Renzi ha attuato nella sfera del discorso pubblico. Il nucleo di tale rivoluzione è stato di rendere possibile, di rendere finalmente possibile, un discorso aperto su almeno tre temi: l’assetto istituzionale della Repubblica, i limiti dell’azione dei magistrati e, soprattutto, il ruolo dei sindacati.

Su questi tre punti Renzi ha detto cose che, dette da chiunque altro, gli sarebbero valse accuse di autoritarismo, fascismo, antidemocrazia, collusione con il potere, e chi più ne ha più ne metta. Per Renzi il presidenzialismo non è un tabù né una bestemmia antidemocratica, ma un’ipotesi di cui si può ragionare. Per Renzi la magistratura ha tutto il diritto di indagare i politici, ma un semplice avviso di garanzia non può diventare un motivo sufficiente per mettere fuori gioco un politico. Per Renzi l’opinione dei sindacati va ascoltata ma è il governo che deve decidere, anche contro le posizioni dei vertici confederali.

Tutte cose ovvie e di puro buon senso, direte voi. Sì, ma non nella cultura della sinistra italiana, che fino a qualche mese fa non esitava a bollare come "di destra" (massima infamia) chiunque si avventurasse a esprimere opinioni di quel tipo. Quell’accusa Renzi se l’è sentita rivolgere contro per anni, più o meno inframezzata ad accuse complementari, come quella di essere berlusconiano (quando ebbe l’ardire di andare ad Arcore), o di essere succube dei padroni (quando dichiarò di "stare con Marchionne", ai tempi del referendum dei lavoratori Fiat). Oggi che Renzi ha conquistato il Pd, e ha portato al potere tanti politici che fino a ieri lo osteggiavano proprio perché era "troppo di destra", dire che chi dissente con Susanna Camusso (Cgil) è di destra, chi vuole abolire il Senato è antidemocratico, chi vuole l’elezione diretta del capo dello Stato è populista, è diventato difficile, molto più difficile che sei mesi fa. Perché se lo dici squalifichi anche lui, il ragazzo terribile che nel giro di pochi mesi ha trasformato un partito debole e depresso dalla cura Bersani in una gioiosa macchina da guerra galvanizzata dal suo leader e dalla sua guardia nazionale di ragazze in vertiginosa ascesa politica.

Si può giudicare in molti modi questa operazione, e scorgere in essa più i rischi che le opportunità. Per parte mia resto dell’idea, che ho espresso poche ore dopo l’insediamento del governo Renzi, che scegliere gli uomini e le donne più fidate anziché le persone più competenti sia stato un errore che finiremo per pagare noi cittadini. Però questo non cancella il lato positivo (e difficilmente reversibile), della piccola rivoluzione di Renzi: d’ora in poi certe cose di puro buon senso, certe opinioni discutibili ma non irragionevoli, si potranno esprimere in pubblico senza essere sommersi dal disprezzo dei benpensanti di sinistra. I quali, certo, potranno continuare ad accusare la sinistra riformista e liberale delle stesse nefandezze di cui da sempre accusano la destra, ma finalmente dovranno farlo in luoghi più circoscritti e riservati, e con una minore sponda da parte di giornali e televisioni. Gli intellettuali perennemente "preoccupati per le sorti del Paese" e increduli che il Paese non li ascolti ci saranno sempre. Così come, ancora per lunghi anni, dovremo fare i conti con una sinistra più o meno folkloristica, più o meno dura e pura, ma comunque completamente prigioniera dei miti del secolo scorso. La novità è che chi non la pensa come questo tipo di sinistra, chi non venera la casta degli intellettuali progressisti, chi semplicemente si sforza di ragionare e guardare avanti, d’ora in poi si sentirà un po’ più libero di dire la sua, meno terrorizzato dalle scomuniche dei custodi del politicamente corretto, meno obbligato a difendersi e giustificarsi.

Può essere molto o poco, e persino bene o male a seconda dei punti di vista. Ma comunque è un punto di non ritorno, e per ora l’unico lascito sicuro della stagione renziana.

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