Gentile Enrico Letta, non faccia lo struzzo
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Gentile Enrico Letta, non faccia lo struzzo

I democristiani erano tutto. Avevano tanti pregi e altrettanti difetti, ma certamente non sono mai stati forcaioli. Ora che contano tanto nel Pd, perché non trasmettono l’arte della moderazione ai loro compagni di strada?

Enrico Letta è un deputato e un alto dirigente del Partito democratico che fa politica da quando aveva i calzoni corti. È alla guida dell’esecutivo delle larghe intese perché il suo socio di maggioranza politico, ovvero il Pdl, gli ha riconosciuto un’ampia capacità di governare e certamente si fida di lui. Il perché è presto detto: Letta non è mai stato un pasdaran, men che mai un tagliagole, e non ha mai vestito i panni sudici del trasformista o peggio dell’opportunista: quattro categorie assai rappresentate nel Pd. Insomma, è un democratico sui generis.

Diciamola tutta: è un autentico democratico cristiano, non a caso cresciuto nel solco del suo maestro Beniamino Andreatta che della sinistra Dc è stato per anni un punto di riferimento. Viviamo un tempo in cui la Dc è tornata prepotentemente alla ribalta con gli ex ragazzi scudocrociati (Letta, Renzi, Franceschini) che stanno per mandare in pensione i comunisti del Pd: un’operazione meravigliosa e straordinaria perché, come un cavallo di Troia, i jeune (oggi ancien) dc dopo oltre vent’anni hanno finito per conquistare il partito che li accolse come naufraghi alla deriva. Quello stesso partito che si era illuso di avere ucciso la Dc grazie all’azione chirurgica di magistrati che presto dimostrarono di non essere affatto indipendenti.

Enrico Letta ha dato abbondanti prove del suo essere democristiano (e sia chiaro che questo è un complimento) da quando è a Palazzo Chigi. L’Imu è stato il suo capolavoro, a cominciare da quando, nel corso della presentazione del suo governo alle Camere, il presidente parlò democristianamente di «superamento», una formula che gli consentiva di collocarsi esattamente nel mezzo tra la cancellazione chiesta dal Pdl e la rimodulazione invocata dal Pd. Ma è stato nelle ultime settimane, quando il nodo dell’Imu è arrivato al dunque, che il premier ha dimostrato di essere un grande interprete dell’arte compromissoria, di sapersi mostrare concavo e convesso a seconda degli interlocutori che si ritrovava davanti.

Il risultato è stato quello di avere superato brillantemente lo scoglio che rischiava di mandare in frantumi il suo governo. E se, sull’altare della stabilità, è stato necessario sacrificare in parte gli interessi del proprio partito, il giovane Letta ha saputo dove trovare il coraggio necessario.

Il premier delle larghe intese non può dunque voltarsi dall’altra parte ora che si dovrà affrontare la questione dell’agibilità politica di Silvio Berlusconi.

Primo, perché è un problema centrale della nostra democrazia e non del singolo parlamentare.

Secondo, perché è in discussione il diritto del fondatore e leader del partito – che è socio di maggioranza nella coalizione di governo – ad avere accesso alle garanzie giurisdizionali di cui ogni cittadino deve godere.

Per questo Enrico Letta, da buon democristiano, deve saper dare un segnale preciso, soprattutto al Pd, uscendo al più presto dalla nebbiolina semantica dietro la quale si è finora rifugiato.
E dovrà essere necessariamente un segnale di pacificazione e non di rottura, se davvero si vuole l’interesse
superiore dell’Italia. Interesse che in questo momento, come ci ricorda ogni giorno il Quirinale, coincide proprio con il governo delle larghe intese.

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Giorgio Mulè