Libia. La politica, l’ENI e l’attentato al generale Haftar
MAHMUD TURKIA/AFP/Getty Images
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Libia. La politica, l’ENI e l’attentato al generale Haftar

Gli islamisti licenziano il loro premier, mentre Haftar è colpito da una bomba e l’Italia torna in prima linea grazie anche all'ENI

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 È di stamani, venerdì 10 aprile 2015, la notizia che il generale libico Khalifa Haftar, comandante in capo delle forze armate del governo di Tobruk, è rimasto ferito in un attentato dinamitardo avvenuto all’alba di mercoledì 8 aprile. La natura delle lesioni, come pure le circostanze dell’attacco, rimangono ancora sconosciute. Tuttavia, alcune fonti indicano che i colpevoli potrebbero trovarsi all’interno delle stesse forze armate. Uno dei nomi che si fanno è quello del colonnello Faraj Barasi, il quale avrebbe “serie divergenze” circa i metodi del generale Haftar.

 

La notizia è preoccupante, dal momento che Haftar rappresenta non solo l’argine al caos jihadista, ma rappresenta anche il governo sostenuto dalla comunità internazionale e lo stesso Egitto dei militari. Una sua scomparsa di scena provocherebbe ulteriore confusione e incertezza sul futuro politico e sul tentativo di formare un governo di unità nazionale, in un momento in cui in Libia si stanno saldando le forze anti-sistema.

 

È sempre di oggi, infatti, la notizia secondo cui Ansar al-Sharia, il principale e più forte gruppo jihadista che controlla Bengasi, avrebbe giurato fedeltà allo Stato Islamico. Il suo leader spirituale e militare, Abu Abdullah al-Libi, avrebbe diffuso domenica scorsa un messaggio audio, dove egli teorizza la validità giuridica di giurare fedeltà all’ISIS.

 

Tutto questo avviene mentre Italia, Egitto e Algeria lo stesso giorno dell’attentato ad Haftar hanno convenuto di “condividere informazioni” e “intensificare gli sforzi comuni”, per combattere la crescita delle forze terroristiche in Libia e sostenere la proposta delle Nazioni Unite circa la creazione di un governo di unità nazionale. La decisione è stata presa durante una trilaterale a Roma, tra il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, il suo omologo egiziano, Sameh Shoukri, e il ministro algerino per gli Affari Africani del Maghreb, Abdelkader Messahel.


Gentiloni ha incontrato separatamente il presidente della Camera dei Rappresentanti libico, Ageela Saleh Gwaider, che era stato invitato a Roma dal Presidente della Camera dei deputati italiana, Laura Boldrini. Ageela Saleh Gwaider, per la cronaca, rappresenta il parlamento e il governo di Tobruk, ovvero le sole istituzioni attualmente titolate a parlare per la Libia e a essere riconosciute dalla comunità internazionale. Questo, nonostante la capitale Tripoli sia in mano alla coalizione “Alba Libica”, formata da fazioni islamiste che non riconoscono né il parlamento di Tobruk né il relativo governo che risiede a Beida.

 

Il sostegno egiziano a Tobruk

 

Se Roma propende per lavorare all’ipotesi politica, anche se non è dato sapere come essa si sostanzierà se gli scontri tra milizie non si fermeranno, secondo il presidente Gwaider un governo di unità nazionale che comprenda tutte le forze libiche che hanno respinto il terrorismo “esiste già” e Roma lo deve appoggiare. Il Cairo, ha sostenuto il ministro, non cambierà posizione ed è impegnato a sostenere la Camera dei Rappresentanti (HoR) di Tobruk, finché essa stessa non nominerà un nuovo governo di unità nazionale che l’Egitto accetterà senza troppe storie purché “rappresenti tutte le anime del popolo libico”.

 

Per il ministro algerino Messahel, invece, l’urgenza di pacificare la Libia si coniuga con il pericolo imminente che la sicurezza dell’Algeria venga minacciata dalle frange più estreme del jihadismo islamico. La trilaterale romana ha avuto come esito la decisione di incontrarsi di nuovo al Cairo, in una data da destinarsi.

 

La situazione politica in Libia
Dopo che il 31 marzo scorso ben 70 parlamentari del Congresso Nazionale Generale (CNG) e 14 ministri del governo islamista di Tripoli hanno votato a favore della destituzione di Omar Al Hassi dal ruolo di primo ministro, la situazione politica a Tripoli si è surriscaldata. Al Hassi rappresenta gli islamisti di Alba Libica, dunque gli oppositori di Tobruk. La giustificazione ufficiale del voto di sfiducia nei suoi confronti è relativa alle poco convincenti scelte fatte da Al Hassi nei mesi scorsi per sanare la situazione economica della Libia.

 

Al rifiuto di Al Hassi di riconoscere la decisione dei parlamentari del CNG, che ha sostenuto di avere dalla sua parte “l’appoggio dei combattenti rivoluzionari”, le istituzioni che egli pur rappresenta hanno comunque affidato il potere nelle mani del vice premier nonché ministro della Difesa, Khalifa Ghwell, con un comunicato ufficiale di Alba Libica nel quale la coalizione islamista approvava l’avvicendamento.

 

Il licenziamento di Al Hassi è stato un tentativo di alcune frange moderate del governo tripolino di avvicinarsi al governo di Tobruk attraverso la mediazione internazionale, per tentare una road map che porti la Libia a un governo di unità nazionale. Al Hassi, in questo, sarebbe stato di ostacolo poiché allineato con le frange più conservatrici e meno inclini al compromesso politico.

 

Tuttavia, anche Khalifa Ghwell è un islamista radicale al pari del suo predecessore. Benché nel suo discorso inaugurale abbia sottolineato che il suo governo continuerà a impegnarsi nel dialogo “rifiutando violenza ed estremismo”, in un’intervista di febbraio aveva definito l’attività di Ansar Al Sharia “accettabile”, in quanto questa organizzazione jihadista combatte contro il Generale Khalifa Haftar, il nemico numero uno degli islamisti tripolini.

 

L’ENI e la questione economica
Nonostante i pallidi tentativi di conciliazione, il governo di Tobruk non se la passa bene e anzi attraversa una grave crisi di liquidità. Per questa ragione, come scrive Il Foglio, “il presidente del Parlamento eletto ha confermato due giorni fa di aver varato un’ordinanza per aprire un conto in una banca del Golfo (probabilmente negli Emirati Arabi Uniti) dove versare gli introiti derivanti dalla produzione petrolifera entro le prossime due settimane”. Secondo Tobruk, infatti, la Banca centrale libica che ha sede a Tripoli, stante la sua formale neutralità nel conflitto, è sotto pressione e potenzialmente suggestionabile dagli islamisti di Alba Libica che comandano in città.

 

In questo caos, come scrive il Wall Street Journal, l’Italia è rimasto l’unico Paese a mantenere rapporti economici stabili in Libia, pur avendo chiuso l’ambasciata. L’ENI è oggi la sola compagnia petrolifera che riesce ancora a estrarre greggio e gas dal Paese, mentre le principali concorrenti - la francese Total, la spagnola Repsol e l’americana Marathon Oil - sono impossibilitate a svolgere il proprio lavoro. Da notare che la maggior parte degli stabilimenti dove è presente ENI si trovano a ovest della Libia e su piattaforme offshore. Tutte aree sotto il controllo del governo islamista di Tripoli, dove Tobruk - che l’Italia dice di voler sostenere politicamente - non può nulla.

 La produzione petrolifera di ENI nel 2015 non ha risentito di particolari contraccolpi, è quasi al suo massimo potenziale (quasi 300mila barili estratti ogni giorno) e gli impianti petroliferi e il relativo personale sinora sono stati in grado di lavorare in sicurezza. Il che si deve per lo più ad accordi stretti con le milizie locali e a una ben tessuta trama politico-diplomatica che potrebbe costituire la base per assicurare all’Italia di lavorare serenamente anche in futuro.

 

La scelta italiana
Dunque, schierarsi definitivamente con il governo di Tobruk potrebbe rivelarsi, sulla carta, controproducente. Al momento, però, la Farnesina e lo stesso premier Matteo Renzi sembrano aver puntato tutto sull’Egitto di Al Sisi, l’unico vero argine alla proliferazione dell’estremismo islamico in Nord Africa nonché grande sponsor di Tobruk. Tuttavia, sappiamo fin troppo bene che uno schieramento non può essere definitivo sino a che in Libia le armi non taceranno (l’attentato al generale Haftar insegna).

 Il che significa che il nostro governo adotta anche in Libia la politica dei “due forni” già rivelatasi vincente in politica interna. Una scelta che è anche la cifra politica dello stesso Matteo Renzi. Ma la politica estera, è bene ricordarlo, è tutta un’altra storia. E a volte a fare la storia sono le variabili impazzite.

 

 


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Luciano Tirinnanzi