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ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO
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Omicidio Musy, e se Furchì non fosse il vero colpevole?

Conferma della condanna all'ergastolo al processo di appello per l'omicidio del consigliere comunale torinese

Il 21 marzo 2012, nel pieno centro di Torino, poco dopo le 8 il consigliere comunale Udc Alberto Musy viene colpito sotto casa con quattro colpi di pistola. Le telecamere inquadrano un uomo con impermeabile scuro e casco in testa. Francesco Furchì, ex collaboratore politico di Musi, viene arrestato con l'accusa di tentato omicidio. Il 22 ottobre 2013 Musy muore: il capo di impiutazione cambia in omicidio premeditato, aggravato da futili motivi.

Il 28 gennaio 2015 in primo grado, a Torino, Furchì viene condannato all'ergastolo. Sentenza confermata oggi dalla Corte d'Appello.

 


I giudici che hanno condannato all’ergastolo Francesco Furchì per l’assassinio di Alberto Musy, nelle 70 pagine della sentenza non hanno risposto ad alcune domande imprescindibili: come può Furchì aver premeditato un omicidio se non conosceva le abitudini della vittima e se non poteva sapere che quella mattina Musy avrebbe portato i figli a scuola? Furchì non è mai stato visto aggirarsi vicino all’abitazione nei giorni precedenti, e la decisione su chi portare i figli a scuola tra Musy e la moglie viene presa di giorno in giorno sulla base degli impegni di ognuno. Chi è il complice dell’assassino di cui si parla nella descrizione della dinamica? Qual è il suo nome, quanto è alto, dov’è un riscontro oggettivo della sua esistenza? E soprattutto: se hai qualcuno che ti fa da palo e che ti segnala l’arrivo del tuo bersaglio, che fai più cinque minuti dentro l’androne con Musy che addirittura ti trova intento a trafficare nei pressi del cancelletto delle scale cantina?

Le inconguenze

A questo proposito: prima di cadere in coma, la vittima racconta ai condomini che lo soccorrono di aver parlato con il suo aggressore. Ora, Musy conosce benissmo Furchì: come è possibile che, sentendo la sua voce e guardandolo in faccia, pur con il casco in testa, non lo abbia identificato? Infine la questione del mezzo di trasporto: i giudici dicono che Furchì uscendo dal suo ufficio utilizza un motorino. Dov’è questo motorino? Che colore ha? Il tragitto è pieno di telecamere, perché non esiste prova del suo passaggio? Anche sul movente poi ci sono diversi dubbi, ma prima facciamo un passo indietro e ripercorriamo i fatti.

Le ultime parole della vittima

Alberto Musy, avvocato, professore universitario, consigliere comunale, ex candidato a sindaco di Torino, viene freddato con quattro colpi di pistola sotto casa in via Barbaroux alle 8,05 del 21 marzo 2012. Dopo pochi minuti entra in coma, ma prima di perdere i sensi parla con i condomini che lo soccorrono: «In che razza di mondo viviamo che arriva uno e ti spara senza motivo?» Musy racconta di un uomo robusto, sulla quarantina, con un impermeabile nero e un casco bianco, come risulterà dalle telecamere, con la bocca coperta da un nastro e un pacco in mano. Poco dopo, alla moglie Angelica dirà: «Mi hanno seguito, c’era un motorino». Alberto Musy muore venti mesi dopo, il 22 ottobre 2013.

L'arresto

Nel frattempo, il 29 gennaio di quell’anno la polizia arresta Francesco Furchì. La procura non ha dubbi: è lui l’uomo che ha sparato. Gli indizi portati a supporto dell’accusa passano il vaglio dei giudici e vengono elencati numericamente nella sentenza. Si parte dalla compatibilità cronologica: quella mattina Furchì era in centro città, in via Garibaldi 13, nella sede dell’associazione Magna Grecia, di cui era presidente, come documenta una telecamera di sicurezza situata vicino, e le testimonianze di tre operai che incontra per un trasloco. Da qui, scrivono i magistrati, Furchì a un certo punto sarebbe uscito «alla chetichella», senza salutare nessuno.

Gli interrogatori

Francesco Furchì viene sentito la prima volta il 29 gennaio 2013. Gli viene chiesto dei suoi spostamenti precisi durante una mattinata di 10 mesi prima. Racconta di essere arrivato in centro a Torino con l’auto della moglie poi, ma quando secondo la procura si rende conto che verrà smentito, dice di aver viaggiato in autobus. In ogni caso, nulla riferisce su cosa abbia fatto dalle 7,26 alle 10,04. Proprio il suo silenzio rappresenta un altro elemento indiziario: l’imputato tace sui suoi movimenti e non offre elementi a sua discolpa, scrivono i giudici. Ma la prova maggiore contro di lui è la «compatibilità dei parametri fisici» con la figura dell’uomo con impermeabile e casco immortalata dalle telecamere. I consulenti del pubblico ministero fanno il match, come si dice in gergo, sulla base di questi elementi che a loro avviso presentano una «elevata percentuale di somiglianza»: comunanza di valgismo dei piedi, ulteriore comunanza di zoppia con difetto di appoggio del piede destro, comunanza di asimmetria delle spalle, con quella destra più bassa. Inoltre, coincidono anche il «naso di dimensioni notevoli» e le «mani piccole». In tutto questo, pesa il rifiuto dell’imputato di sottoporsi a misurazioni fisiche.

Il telefono spento

Come se non bastasse, quella mattina Furchì avrebbe spento il telefono, certezza che si ricava dal fatto che il suo apparecchio, che non registra alcun movimento, secondo i periti sarebbe rimasto scollegato dalla rete tra le 7,24 e le 10,04, quando riceve una telefonata dalla moglie. Altra prova, le dichiarazioni di un compagno di cella, Pietro Altana, il quale riferisce una confidenza di Furchì: un amico gli aveva custodito una pistola in un capanno. Lo stesso Furchì, dopo un diverbio, gli avrebbe urlato: «Ti faccio fare la fine di Musy».

Per i giudici, anche il comportamento di Furchì dopo il delitto costituisce grave indizio di colpevolezza: dicono che nonostante sfruttasse ogni occasione per portarsi agli onori della cronaca, in questo caso non ha adottato nessuna iniziativa pubblica per «cavalcare la notizia» e trarre il massimo vantaggio in termini di visibilità. Neppure un «misero comunicato stampa di solidarietà all’amico».

Il movente

Infine il movente: perché lo ha ucciso? Perché Francesco Furchì è un «millantatore», un «maneggione», un uomo dal «carattere violento e prevaricatore», in grado di covare «odio e propositi di vendetta». Musy avrebbe avuto la colpa di tradirlo in diverse occasioni: nella tentata scalata di una società in fallimento, la Arenaways, nel concorso universitario dove lui gli aveva caldeggiato invano il figlio dell’onorevole Salvo Andò, nella lite per la campagna elettorale del 2011 quando Musy gli avrebbe rifiutato il ruolo di capolista. Così Furchì si vendica dei torti subiti ammazzandolo.

Omicidio premeditato aggravato da motivi futili. Il 28 gennaio di quest’anno la Corte D’assise di Torino lo ha condannato alla pena dell’ergastolo. Una misura che non soddisfa ancora la procura, la quale ha presentato appello perché venga applicato l’isolamento diurno di almeno sei mesi. Si vedrà a breve, durante il processo in secondo grado che inizierà l’11 novembre, nel quale gli avvocati Giancarlo Pittelli e Gaetano Pecorella, difensori di Furchì, promettono battaglia al grido di «grave condizionamento» del giudice di primo grado, «pregiudizio» contro il loro assistito, «travisamento» del fatto e della prova.

I dubbi

Certo, i nuovi giudici dovranno sciogliere alcuni dubbi. A cominciare proprio da quella mattina. La decisione di portare i figli a scuola tra Musy e la moglie veniva presa giorno per giorno in base agli impegni di ognuno. Da nessuna parte emerge la consapevolezza di Furchì sulle abitudini di vita di Musy, come nessuna testimonianza o telecamera lo colloca nei pressi della sua abitazione nei giorni precedenti il delitto. Come faceva a sapere degli spostamenti di quella mattina? Secondo i giudici avrebbe avuto un complice, la cui conferma si trae da alcuni fotogrammi che riprendono l’attentatore mentre inserisce la mano sotto la mascherina che gli copre la bocca per ricevere una comunicazione via radio circa l’imminente arrivo della vittima. A parte il fatto che questa immagine viene collocata dal consulente del pm in un momento successivo all’attentato, per il resto l’accusa non porta una traccia qualsiasi che documenti l’esistenza del complice.

C’è poi il problema dei tempi e degli spostamenti dell’assassino. Furchì esce dal suo ufficio e dalle telecamere risulta andare in direzione opposta rispetto a casa Musy. Il primo avvistamento dell’attentatore che cammina con casco in testa e pacco in mano è in via Palestro. Ma nessuna telecamera riprende Furchì tra i due punti. Per tenere gli spazi con i tempi, l’accusa sostiene che Furchì si sarebbe mosso in motorino. Del quale però non c’è traccia. La logica poi impone una riflessione: se hai il casco in testa, non desti minori sospetti muovendoti in sella a un motorino? Che senso ha lasciarlo e proseguire a piedi? Proprio il complice e il motorino rappresentano due pilastri fondamentali nella costruzione dell’accusa. Ma senza riscontri, si finisce per ritenerli immaginari.

Anche sull’alibi poi c’è tanto da ridire, al punto che non si capisce come possa essere definito falso il racconto di fatti che si sono verificati in una fascia oraria ben precisa di dieci mesi prima. Come non si vede da dove possa ricavarsi la certezza che Furchì quella mattina abbia spento il suo telefono volontariamente per il solo fatto che sia rimasto scollegato dalla rete. Posto che nella stessa giornata, dalle 10,16 alle 12,22, dalle 12,56 alle 16,33, dalle 17,26 alle 21, la sua utenza ha registrato lo stesso distacco dalla rete. Secondo l’imputato, a causa di un cattivo funzionamento dell’apparecchio. Non si crede a lui, ma si crede al testimone Altana, pregiudicato per truffa, ricettazione e calunnia, ma le cui parole vengono prese per oro colato dalla corte nonostante i giudici stessi lo ritengano «un millantatore che vanta rapporti di collaborazione con i servizi segreti forse mai avvenuti».

La farina con la quale è stata impastata la condanna in primo grado è incredibilmente esplicitata a pagina 13 della sentenza: «…emerge chiara e netta la grave portata indiziaria della personalità violente e vendicativa di Furchì, senza contare che è l’unico soggetto, tra tutti quelli che sono stati individuati nelle indagini come protagonisti di una qualche divergenza con la vittima, con caratteristiche così marcatamente dirette alla brutale aggressività». Violenza e aggressività che si ricava dalla denuncia dell’ex moglie, dalle quali è scaturito un processo nel quale Furchì è stato assolto perché il fatto non sussiste.

Giudizio o pregiudizio? Ai nuovi giudici l’ardua sentenza.

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Carmelo Abbate