Viaggio nello "shale oil" texano
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Economia

Viaggio nello "shale oil" texano

È il cuore della rivoluzione petrolifera che sta cambiando l'industria americana. Alle prese con l'altalena del prezzo del petrolio e la sfida delle nuove tecnologie

Rajiv indica il finestrino e con tono serio sentenzia: «Laggiù è un vero incubo, molti licenziamenti». Ma poi sul viso di questo informatico indiano che vive in Texas torna il sorriso: «Comunque io continuo ad investire nelle azioni delle aziende petrolifere. Ho molti amici che lavorano nel settore, e quando gioco a golf con loro mi dicono di non preoccuparmi, che il prezzo del greggio tornerà su». Dal fitto strato di nubi sbuca la silhouette di Houston e l'aereo inizia l'atterraggio al George Bush Airport.

La città texana è la meta ideale per capire che cosa sta succedendo nel mondo dell'oro nero: diventata la quarta metropoli americana dopo New York, Los Angeles e Chicago, Houston ospita più aziende legate al petrolio di qualsiasi altra località del pianeta. Qui operano non solo le grandi corporation della benzina, ma anche le imprese che hanno sviluppato e perfezionato il «fracking», la tecnica che permette, attraverso l'iniezione ad alta pressione di acqua e altre sostanze, di fratturare e svuotare gli strati di rocce imbevute di greggio e gas, il cosiddetto «shale oil». Una vera rivoluzione che ha proiettato gli Stati Uniti ai vertici mondiali della produzione petrolifera e verso l'autosufficienza energetica. Gli Usa adesso estraggono greggio ad un ritmo di 9 milioni di barili al giorno, in crescita del 14 per cento rispetto al 2013: siamo a livelli che non si vedevano dagli Anni 80. E il grosso dello «shale oil» si trova proprio qui in Texas, oltre che in North Dakota: lo stato della stella solitaria produce il 40 per cento del petrolio Usa ed è sulla buona strada per superare tutti i paesi Opec, tranne l'Arabia Saudita, grazie ai giacimenti Eagle Ford (a sud-ovest) e Permian Basin (a cavallo del confine con il New Mexico).


Come tutte le rivoluzioni, anche quella del petrolio americano ha effetti positivi e lati oscuri. È grazie all'inondazione di shale oil se l'Opec ha deciso di lasciare precipitare i prezzi dagli oltre 100 dollari al barile del 2014 ai 60 scarsi di fine maggio. Ed è dunque merito, indiretto, dei petrolieri texani se l'Italia risparmia 24 miliardi di euro all'anno di bolletta energetica. Ma è anche colpa loro se i giganti del petrolio, come l'Eni, sono costretti a tagliare miliardi di investimenti. E ora il pericolo è che la riduzione dei prezzi del petrolio faccia inceppare e forse rompere per sempre il motore del miracolo americano. Sulla prima pagina dello Houston Chronicle, il quotidiano più importante della città, viene pubblicata ogni giorno la quotazione del greggio, e sempre più spesso è affiancata da notizie di aziende che riducono il personale o, peggio, che avviano la procedura di fallimento: la Halliburton ha licenziato mille lavoratori a fine 2014, la Baker Hughes ha annunciato che lascerà a casa settemila persone, la Schlumberger  novemila. La prima impresa a fallire è stata in gennaio la Wbh Energy di Austin, capitale del Texas; l'ultima, qualche giorno fa, la Dune Energy di Houston.


Fino a che punto può scendere il prezzo del petrolio per mantenere redditizia l'estrazione di «shale oil»? Attraversato un elegante quartiere di ville in pietra a ovest del centro di Houston, spunta un grattacielo di vetro e cemento marroncino. Qui ha sede la Argus Media, specializzata in analisi sul mercato dell'energia. Spiega Mark Babineck, uno dei suoi «editor»: «Il costo dello ?shale oil? dipende molto da dove viene estratto: nell'area centrale dei giacimenti scende fino a 20-30 dollari al barile, quindi è molto basso. Via via che ci si allontana dal centro, il costo sale a 50-60 dollari, anche a 70 dollari. Poi c'è il costo del trasporto verso le raffinerie che è più alto nel North Dakota, più basso qui in Texas». La Argus Media prevede che la quotazione del West Texas intermediate (Wti) scenda quest'anno fino a 33,7 dollari al barile, per poi risalire nel 2016 a 52 dollari. Valori bassi, che spiazzano molti produttori e potrebbero danneggiare l'economia texana e, di conseguenza, quella americana. Anche se, come precisa Babineck, l'estrazione di petrolio non si ferma: i proprietari dei terreni dati in affitto alle società di fracking possono rompere il contratto e dare la concessione ad altri concorrenti se la produzione viene interrotta. Per questo l'estrazione di greggio americano per ora prosegue. Anche se, avverte Warren Henry, portavoce della Continental resources, questi prezzi sono insostenibili a lungo termine.


All'università di Houston, a pochi passi della palazzina riservata agli studenti con i suoi negozi, i ristoranti e il bowling, c'è l'ufficio di William Gilmer, economista del Bauer college of business, ed ex membro della Federal reserve, la banca centrale americana. Il professore ricorda che la rivoluzione dello shale oil, iniziata nel 2003, ha fatto aumentare l'occupazione nell'area di Houston di ben 650 mila posti di lavoro: «È come se fosse nata una nuova città. E grazie a questo fenomeno, fino a poco tempo fa il Texas è stato il responsabile di tutta la crescita netta di posti di lavoro nel Paese dall'inizio della Grande recessione». Ora, però, con il calo del prezzo del petrolio Gilmer stima che gli investimenti crolleranno del 30 per cento: «Temo che Houston soffrirà una leggera recessione, le aziende del settore petrolifero probabilmente quest'anno dovranno licenziare 28 mila persone, con un effetto a catena sull'intera economia metropolitana. Ma io penso che il prezzo del greggio risalirà a 65 dollari e nel lungo periodo l'industria dello ?shale oil? continuerà a crescere». Bill Arnold, docente di Energy management alla Rice University, un'altro campus di Houston, prevede addirittura che le quotazione dell'oro nero risalgano a 70 dollari al barile entro la fine dell'anno.

C'è poi da tenere presente che con il tempo si abbasserà il costo del «fracking»: Douglas Stephens, presidente della divisione Pressure pumping dalla Baker Hughes, una delle più grandi società del mondo nel settore delle tecnologie per la ricerca petrolifera, spiega in perfetto italiano che «l'evoluzione è continua e sono in arrivo nuovi macchinari che permettono di rendere più efficiente l'estrazione di gas e petrolio. Per esempio stiamo sperimentando il ?re-fracking?, che offre l'opportunità di tornare a sfruttare pozzi che non si ritenevano più redditizi». Stephens guarda al futuro con fiducia: «La crisi passerà, è solo un ciclo e ne usciremo più forti di prima».

Ne sono convinti anche a Karnes City, un reticolo di pompe di benzina, case di legno e drugstore piazzato al centro del giacimento Eagle Ford, un'enorme regione lunga 400 chilometri e larga 80 sotto la quale si nasconde uno strato di roccia sedimentaria piena di petrolio e gas naturale. Per arrivare in questa cittadina di circa seimila abitanti, raddoppiati negli ultimi anni grazie al boom petrolifero, bisogna imboccare la freeway 59 che da Houston si srotola per 300 chilometri verso sud-ovest. Quando si supera il confine invisibile del giacimento, si iniziano a scorgere i primi impianti: estesi più o meno come duecampi di calcio, di solito sono formati da una torre, un paio di grandi pompe, un serbatoio per l'acqua. La trivella scende fino a quattomila metri sottoterra e poi altri tubi si diramano in orizzontale: prima l'acqua ad alta pressione frattura le rocce e quindi inizia l'estrazione. Vista dal satellite, l'area sembra devastata da centinaia di trivelle e migliaia di pozzi. Ma quando la si attraversa in macchina, l'impatto visivo è meno drammatico: tra un impianto e l'altro ci sono anche chilometri di campagna.

Cittadine come Karnes o la vicina Kenedy hanno fatto i soldi grazie allo «shale oil»: Eagle Ford è uno dei più grandi giacimenti americani di questo tipo di petrolio e di gas, ed è il più redditizio. Il primo pozzo fu perforato nel 2008 e nel giro di pochi anni la produzione si è impennata raggiungendo un milione di barili al giorno. Oggi sono un centinaio le imprese che lavorano in quest'area e i proprietari dei terreni, che in America sono anche padroni del sottosuolo (a differenza dell'Europa) incassano milioni di dollari in contratti di affitto. I depositi bancari nelle 14 contee dell'area sono cresciuti di circa 372 milioni dollari lo scorso anno; la sola Karnes County National Bank ha raccolto 65 milioni in più rispetto al 2013. Con il ribasso del prezzo del petrolio, però, molte aziende si sono ritirate. La cuccagna è finita? Don Tymrak, city manager di Karnes, ostenta tranquillità: «Non c'è nessun allarme. E poi qui gli operatori hanno investito miliardi di dollari in condutture e altre infrastrutture, non penso che se andranno via molto facilmente».

E l'ambiente? L'inquinamento dell'acqua e dell'aria non rappresenta un problema? A San Antonio, nella redazione del San Antonio Express-News, pochi isolati di distanza dal famoso Fort Alamo dove un manipolo di texani fu sconfitto dai messicani, la giornalista Jennifer Hiller ammette che in questi anni le compagnie petrolifere hanno bruciato miliardi di metri cubi di gas naturale nell'aria. «Ma sono soprattutto il traffico di camion, l'aumento degli incidenti e i danni alle strade i problemi per cui la gente si lamenta» dice Hiller. «Direi però che la maggior parte delle persone nel sud del Texas ritiene che l'Eagle Ford rappresenti un grande vantaggio economico per una regione che prima era molto povera».

Una bonanza destinata a durare ancora a lungo: Omar Garcia, presidente del South Texas energy & economic roundtable, organizzazione che riunisce le aziende che operano all'Eagle Ford, si aspetta che i pozzi continueranno a produrre per almeno altri 20 anni. Mentre Stephens dalla Baker Hughes si fa una bella risata e dice: «C'è chi dice che dureranno 20 anni, chi 40, chi addirittura 100 anni. Beh, hanno tutti ragione, perché la vita dei giacimenti dipende dal prezzo e dalla tecnologia». E almeno quest'ultima è destinata a migliorare: la rivoluzione dello «shale oil» americano non è finita. 

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Guido Fontanelli