Emergenza Covid: il modello sanitario lombardo
L'ospedale di Codogno il 21 febbraio 2020 (ANSA)
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Emergenza Covid: il modello sanitario lombardo

Inchiesta sulla pandemia in Italia - SECONDA PUNTATA

  • Panorama ha condotto un'indagine approfondita per capire come mai la regione più ricca d'Italia è stata sopraffatta dal coronavirus. L'inchiesta è pubblicata in cinque puntate a partire dal 12 maggio.
  • Seconda puntata: avendo puntato tutto sulla creazione di un polo d'eccellenza ospedaliero, la regione più ricca del Paese ha messo in secondo piano la medicina territoriale. Una scelta che ha mostrato i suoi limiti allo scoppio dell'epidemia.

«Sono stato io il primo a dirlo: questa è una battaglia che si vince sul territorio. Ogni malato in rianimazione è una sconfitta». Al telefono con Panorama, il professor Andrea Crisanti si compiace del fatto che ormai la comunità scientifica italiana concorda su un punto: il Covid-19 non può essere sconfitto in ospedale. Per debellarlo occorre lavorare sul terreno, negli studi dei medici di base, nei distretti, negli uffici di Igiene pubblica...

A questa consapevolezza il Veneto e l'Emilia Romagna sono arrivate praticamente da subito. La Lombardia ha invece privilegiato l'approccio ospedaliero e solo adesso sta iniziando a rafforzare la medicina territoriale. I due diversi approcci sono frutto delle scelte compiute negli ultimi 20 anni.

«Con l'invecchiamento della popolazione italiana e l'aumento dei costi sanitari, negli ultimi due decenni i finanziamenti e il personale dei programmi regionali di sanità pubblica sono diminuiti» si legge nell'analisi «Lombardia e Veneto: due approcci a confronto» pubblicata su Scienza in rete il 18 aprile. «Da una regione all'altra, si sono osservate crescenti divergenze (...) sulla sanità pubblica o sui servizi di cura. In collaborazione con il settore privato, alcune regioni, tra cui la Lombardia, hanno creato una vasta rete di servizi clinici e ospedalieri, ma hanno diminuito i finanziamenti per le attività di sanità pubblica e i laboratori pubblici. Altre, come il Veneto, hanno continuato a sostenere una forte rete di sanità pubblica con il coinvolgimento della comunità».

I ricercatori concludono dicendo che «la risposta alla pandemia nelle due regioni del Nord Italia riflette queste differenze». Eh sì, perché a parere di tutti gli addetti ai lavori consultati da Panorama, a fare la differenza nella lotta al Covid più che la risposta ospedaliera è la risposta territoriale. Lo ha confermato la Harvard Business Review in un articolo intitolato «Lezioni dalla risposta italiana al coronavirus»: «Si ritiene che l'insieme delle politiche attuate in Veneto abbia ridotto notevolmente il peso sugli ospedali e minimizzato il rischio di diffusione del Covid-19 nelle strutture sanitarie, un problema che ha avuto un forte impatto sulle strutture ospedaliere lombarde» scrive la rivista dell'Università di Harvard. Osserva il dottor Bruno Di Daniel, medico di base a Maserada sul Piave (Treviso): «A marzo il 75% dei pazienti Covid in Lombardia era ricoverato in ospedale. Da noi in Veneto il 24%».

Queste differenze riflettono le politiche sanitarie regionali di Lombardia e Veneto. Se nelle due regioni la spesa sanitaria e i numeri di posti letto e degli adulti per medico di base sono pressoché identici, molto diversa è l'attività di sanità pubblica sul territorio. «In Lombardia ci sono tre laboratori di sanità pubblica (circa uno ogni 3 milioni di abitanti) mentre in Veneto sono 10 (circa uno ogni 500.000 persone)» spiega Scienza in rete. «In Lombardia ci sono otto dipartimenti di prevenzione sanitaria pubblica (uno ogni 1,2 milioni di abitanti) contro i nove del Veneto (uno ogni 500.000 persone)». Ma anche l'assistenza domiciliare è più diffusa in Veneto che in Lombardia, come dimostra la partecipazione ai programmi di Assistenza domiciliare integrata, che si occupano di anziani, disabili e malati cronici. Nel 2017, l'anno più recente per il quale sono disponibili i dati, il programma ha assistito 3,5 persone ogni 100.000 in Veneto e meno della metà della Lombardia: 1,4 ogni 100.000 abitanti.

Ecco perché, allo scoppio della pandemia, le due regioni hanno avuto destini diversi. Coerentemente con la sua visione ospedalo-centrica, la Lombardia ha centralizzato tutto. Come scrive Scienza in rete, «in assenza di altre opzioni, i pazienti sono stati inviati in ospedale, sovraccaricando le risorse umane e i letti esistenti e diluendo inevitabilmente la qualità delle cure».

Fonte: Scienza in Rete, 18.4.2020.

Il Veneto invece ha puntato molto di più sul decentramento. Come si legge su Scienza in rete, «l'autorità sanitaria regionale (in coordinamento con i responsabili locali) ha attuato una strategia articolata sul territorio, che ha incluso un'ampia tracciatura dei contatti, test rapidi dei casi e della rete estesa dei contatti, quarantena e isolamento supervisionati, minimizzazione dei contatti tra operatori sanitari e pubblico, sistemi informatici per una comunicazione rapida sulla diagnosi e la gestione dei casi e per il monitoraggio della disponibilità dei letti». In estrema sintesi, e con una certa approssimazione, si potrebbe dire che i due approcci sono stati: ospedale (Lombardia) contro territorio (Veneto). E questo non è un caso.

«Chi va più dal medico di base?». Quando il 23 agosto 2019 al Meeting di Rimini Giancarlo Giorgetti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, se ne uscì con questa esternazione, non intendeva fare una boutade a effetto. Giorgetti era veramente convinto che i medici di famiglia fossero ormai superati. Il sottosegretario leghista rispondeva alla richiesta di maggiori fondi per la sanità, fatta dall'attuale ministro della Salute Roberto Speranza, che segnalava che nei prossimi cinque anni mancheranno 45.000 medici di base. Ma per Giorgetti la medicina di famiglia era un retaggio del passato. «Nel mio piccolo paese vanno a farsi fare la ricetta medica» spiegò, «ma chi ha meno di 50 anni va su Internet e cerca lo specialista. Tutto questo mondo qui, quello del medico di cui ci si fidava anche, è finita anche quella roba lì».

La frase di Giorgetti, che fece insorgere tutti i medici di base, rifletteva la Weltanschauung sanitaria della Regione Lombardia. Questa visione del mondo ospedalo-centrica era frutto della linea dettata da Roberto Formigoni, il presidente della Lombardia dal 1995 al 2013 che nel 1997 aveva lanciato una riforma epocale della sanità lombarda. Il cosiddetto modello Formigoni poneva sullo stesso piano strutture sanitarie pubbliche e private, affermando il principio della «libera scelta del cittadino» e introduceva la separazione tra gli enti che erogano i servizi, le aziende ospedaliere, e gli enti che pagano tali servizi per conto degli utenti che li hanno liberamente scelti, le aziende sanitarie locali.

La riforma lombarda ha creato un sistema sanitario unico in Italia, nel quale si è concentrata una forte presenza privata, convenzionata con il servizio sanitario regionale, che ha fatto crescere un gruppo di ospedali moderni ed efficienti. In tal modo in Lombardia si era creato un polo d'eccellenza che, fino al gennaio 2020, attirava ogni anno decine di migliaia di pazienti dal resto d'Italia e anche dall'estero.

Mentre la medicina specialistica cresceva e si moltiplicava, concentrandosi in particolar modo sulle prestazioni più remunerative e a minor rischio di complicanze, in Lombardia la medicina territoriale si indeboliva. «Se in campo ospedaliero il quasi mercato ha dimostrato di migliorare l'efficienza del sistema, non si può dire la stessa cosa delle cure primarie» spiega il dottor Andrea Mangiagalli, il medico di base di Pioltello promotore del gruppo Medici in prima linea, che cura a casa i pazienti Covid con clorochina ed eparina. «Il tentativo di riproporre le logiche concorrenziali sul territorio, ad esempio creando antagonismo fra cure primarie e ospedaliere per la presa in carico della cronicità, ha mostrato i limiti della gestione ospedalo-centrica».

Non solo. «La Regione ha anche mostrato scarsa attenzione per le forme organizzative e associative previste dalla legge Balduzzi del 2012» prosegue Mangiagalli. «Infine ha abbandonato il territorio, con la chiusura dei presidi distrettuali periferici, che sono diventati meri punti burocratici e amministrativi, senza più le funzioni di coordinamento del network sociosanitario».

Negli anni in cui la Lombardia trascurava la medicina territoriale, il Veneto e l'Emilia Romagna la rafforzavano. Il professor Pierluigi Viale, ordinario di Malattie infettive all'Università degli Studi di Bologna, racconta un episodio significativo. «Quando alla riunione di budget di fine 2017 l'allora direttore generale dell'Asl di Bologna Chiara Gibertoni annunciò che da quel momento avrebbe investito più sulla medicina territoriale che sugli ospedali, io direttore di unità operativa di un ospedale a livello nazionale ci rimasi male» ricorda. «"Caspita!, mi dissi. "Noi che siamo il cuore della medicina veniamo penalizzati a favore della medicina di continuità". Invece la dottoressa Gibertoni, oggi dg dell'ospedale Sant'Orsola, aveva ragione da vendere. E quest'epidemia l'ha confermato».

La politica sanitaria lombarda ha trascurato tutto il sistema territoriale, ma in particolar modo l'Igiene pubblica. In Lombardia sono stati indeboliti i Dipartimenti di prevenzione, ossia i servizi deputati alla sorveglianza epidemiologica, che dovrebbero garantire le funzioni di prevenzione collettiva e di sanità pubblica, anche a supporto delle autorità sanitarie locali. E quand'è scoppiata l'emergenza Covid tutte le criticità del modello organizzativo lombardo sono esplose. Come ha sottolineato la Federazione Regionale degli Ordini dei Medici della Lombardia in una lettera del 6 aprile, nella regione c'è stata la «pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica», cioè quelle rivolte alla tutela e alla profilassi delle malattie infettive.

A denunciare a gran voce la mancanza «delle più elementari modalità di gestione della pandemia» («una volta le avremmo chiamate di polizia sanitaria») sono stati cinque ex direttori dei Dipartimenti di Prevenzione di Bergamo, Milano e Lodi. «Il disastro che la pandemia da Covid-19 ha prodotto in Lombardia ha tra le cause (…) il collasso della medicina del territorio» si legge in una lettera aperta scritta dai cinque ex direttori. «Non si è però sufficientemente sottolineata l'ancor più grave inadeguatezza della risposta dell'Ats (Azienda territoriale sanitaria, ndr) in funzione di Sanità pubblica: sovvertimento dei ruoli e collasso operativo».

In sostanza, i firmatari accusano la Regione Lombardia di aver affrontato la pandemia sovvertendo i ruoli e scavalcando proprio chi per legge deve occuparsi delle funzioni di prevenzione collettiva e di sanità pubblica, cioè i Dipartimenti di prevenzione. «L'impressione è che in Lombardia i Dipartimenti di Prevenzione siano stati silenziati».

L'assenza di un attento controllo del territorio è stato uno dei fattori che ha contribuito a favorire l'espansione del virus in Lombardia. Controllo che invece è avvenuto sia in Veneto sia in Emilia-Romagna. «Noi medici di base veneti abbiamo avuto una stretta collaborazione con gli uffici di igiene» spiega il trevigiano Di Daniel. «Qui in Veneto sono i Servizi di igiene e sanità pubblica a coordinare gli interventi sul territorio: è loro responsabilità fare i tamponi, chiamare i medici per i controlli, organizzare i test nelle case di riposo...». Lo stesso avviene in Emilia Romagna. «Qui da noi la questione viene gestita dai Sips, i servizi di Igiene pubblica» conferma il dottor Paolo Schianchi, medico di famiglia a Felino (Parma). «Sono loro a organizzare tutto. E poiché si sono trovati a corto di personale hanno reclutato anche i medici tirocinanti del corso di formazione di medicina generale».

Commenta il dottor Luciano Flor, direttore generale dell'Azienda ospedaliera di Padova: «La medicina del territorio è imprescindibile. Quello che ci ha insegnato quest'epidemia è che bisogna lavorare con la medicina generale. E al suo fianco c'è l'Igiene pubblica, nata storicamente per combattere le malattie infettive».

In Lombardia non è andata così. «Si è scambiata un'emergenza, che era un'emergenza di sanità pubblica, per un'emergenza di terapie intensive» ha denunciato il dottor Guido Marinoni, presidente dell'Ordine dei Medici di Bergamo. «Tutto quello che si poteva sbagliare è stato sbagliato, con una politica territoriale inesistente».

(continua)

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Elisabetta Burba