Aubrey Powell Pink Floyd
Ufficio stampa Medimex
Musica

Aubrey Powell: «Ecco come ho creato le copertine dei Pink Floyd»

Fondatore dello Studio Hipgnosis e tuttora direttore artistico delle grafiche della leggendaria band inglese, Powell ha inaugurato la mostra con 55 sue opere di grande formato in occasione del Medimex di Taranto

Sono trascorsi oltre 55 anni dal marzo del 1967, quando è stato pubblicato Arnold Layne, il primo singolo dei Pink Floyd, allora capitanati dall’inquieto talento di Syd Barrett, eppure, nonostante questo notevole lasso di tempo, la musica della band inglese non ha perso nulla del suo impatto emotivo e del suo fascino quasi ultraterreno. Nel corso di una lunghissima carriera, in cui si distinguono tre fasi, corrispondenti ad altrettante formazioni, i Pink Floyd, con le loro architetture musicali, i loro suoni cosmici e le loro rivoluzionarie intuizioni hanno per sempre cambiato la faccia del rock, portandolo in territori fino ad allora inesplorati. C’è chi si è spinto oltre, classificando i loro album come “nuova musica classica”, non tanto come stile, quanto come musica destinata a durare nel tempo e ad essere di ispirazione per le generazioni future. La costante ricerca sonora, unita a una perfezione tecnica maniacale, ha dato vita a una serie di pietre miliari della musica popolare del Novecento come Ummagumma, Atom Heart Mother, Meddle, The Dark Side of the Moon, Wish you were here e The Wall.

Non c'è dubbio che una parte consistente del successo di quei 33 giri risieda nelle iconiche copertine realizzate dallo Studio Hipgnosis, fondato da Storm Thorgerson, Aubrey Powell e Peter Christopherson. E proprio Aubrey Powell in persona ha inaugurato la mostra "Hipgnosis Studio: Pink Floyd and Beyond" al Museo MArTa di Taranto, a cura di Ono Arte Contemporanea, che ha dato il via all'undicesima edizione del Medimex, l'lnternational Festival e Music Conference promosso da Puglia Sounds. La mostra, che rappresenta un'anteprima nazionale, comprende 55 opere di grande formato, con un nucleo centrale che racconta la collaborazione tra Studio Hipgnosis e i Pink Floyd. L’esposizione raccoglie alcune delle copertine più iconiche della band accanto ai loro lavori preparatori e out-take, per mostrare il processo creativo all’origine di quelle che ormai sono diventate pietre miliari non solo dell’arte e del design, ma anche della cultura visiva contemporanea. Dai lavori per i Pink Floyd la mostra si allarga alle opere realizzate per band come Led Zeppelin, Peter Gabriel, Genesis e Rolling Stones. Le opere entrano in dialogo con la collezione permanente del MArTA, il museo archeologico di Taranto, in un percorso integrato che permette al visitatore di immergersi in un pezzo di storia della cultura popolare e della grafica contemporanea. «L'idea di portare il lavoro di una vita all'interno di un museo archeologico così importante come il MArTA mi intrigava molto, anche se non ero sicuro del risultato», ha sottolineato Powell incontrando la stampa. «Invece, quando ho visto dal vivo l'allestimento, mi ha sorpreso come lo stesso si integrasse perfettamente con lo straordinario patrimonio archeologico che si può trovare in questo posto unico al mondo. È stato uno shock positivo e tuttora, camminando per le sale del museo, trovo che questa combinazione tra antico e moderno sia perfetta», spiega Powell.

Camicia bianca, pantaloni e gilet blu, abbronzato e sorridente, Powell, 75 anni portati benissimo, ha raccontato alcune delle sue opere più famose prima in un breve tour con i giornalisti, poi nell'incontro d'autore con Carlo Massarini nel chiostro del museo. «Alla fine degli anni Sessanta condividevo lo stesso appartamento a Londra con Storm Thorgerson e Syd Barrett. Una sera, tornando a casa, abbiamo visto sulla porta bianca un graffito con la scritta Hipgnosis (combinazione dei termini 'hip', trendy, e 'gnosis', un'antica forma di consapevolezza n.d.r.). Prima ci siamo arrabbiati, pensando a uno scherzo di cattivo gusto, ma poi abbiamo capito che, probabilmente, sarebbe stato un ottimo nome per un'azienda. Syd era geniale nell'uso delle parole, probabilmente è stato lui stesso a inventare quel nome senza, però, mai ammetterlo davanti a noi». Dall'amicizia come compagni di college si è passati, con naturalezza, alla prima collaborazione con la band. «Allora studiavo cinematografia e Storm mi aveva convinto a trasferirmi al Royal College, dove ho fatto sei mesi splendidi di formazione professionale sull'uso della camera oscura», ricorda Powell. «Eravamo ottimi amici, così, un giorno, i Floyd, che ancora non erano famosissimi, ci chiesero non solo di fare la copertina, ma di curare tutte le grafiche di A Saucerful of Secrets. Come loro stavano sperimentando con la musica, così io e Storm sperimentavamo con la fotografia. Poiché allora suonavano una sorta di space rock, ho messo dentro alcuni frammenti del fumetto Dottor Strange, l'immagine di un alchimista, di ampolle e bottiglie, una ruota con i segni zodiacali, il sole, alcuni pianeti e una piccola foto del gruppo sulle rive di un fiume fuori Londra. Così è iniziata la nostra avventura con i Pink Floyd». Ancora più iconica è la copertina di Ummagumma, doppio album del 1969 tra brani inediti e canzoni live della band. «L'idea della copertina ci è venuta grazie a una scatola di cacao, dove sulla confezione era ritratta una persona che tiene una scatola di cioccolato, con dentro una persona che tiene a sua volta una scatola di cioccolato e così via», racconta Powell.

«Ciascuna fotografia utilizzata per Ummagumma sembra identica, ma, in realtà, ogni volta un membro della band si trovava in una posizione leggermente diversa rispetto allo scatto precedente. Gilmour lo abbiamo messo davanti per questione di politiche interne alla band e non solo perché era il più bello del gruppo». Il regista, fotografo e designer inglese ha raccontato l'influenza della rivoluzionaria copertina di Sgt.Peppers dei Beatles nel suo lavoro: «Grazie a Sgt. Peppers avevamo capito che si poteva fare tutto, se si usciva dai consueti schemi mentali e si utilizzava il pensiero laterale. Io e Storm allora lavoravamo 14 ore al giorno, sette giorni su sette, per cercare di trovare soluzioni inedite per le copertine. Spesso non avevano nulla a che fare con la band o con il titolo, ma erano un'idea che a loro piaceva». Non a caso, una delle copertine più famose dei Pink Floyd, la celebre mucca di Atom Heart Mother, non aveva nulla a che fare con il contenuto del disco. «I Floyd si stavano allontanando dallo space rock per abbracciare il prog e la musica classica. Per la complessa partitura di Atom Heart Mother si affidarono al compositore Ron Geesin. Noi, allora, eravamo influenzati dal surrealismo, da Bunuel e dal dadaismo. Visto che era un disco davvero particolare e fuori da ogni canone, abbiamo pensato, per contrasto, a una cosa molto comune, come una mucca. Abbiamo fotografato la mucca Lulubelle III, fotografata in un campo vicino allo studio di registrazione. Quando abbiamo portato lo scatto in studio, i Pink Floyd ne furono subito entusiasti: "Sì, Fantastico! Questa sarà la copertina". Storm disse che la cover non avrebbe avuto né il nome della band, né il titolo dell'album. Il dirigente dell'etichetta era furente per questo e ci guardò con rabbia, tanto che gli gonfiarono le vene sul collo. La copertina fu una svolta per noi, la riconoscevi subito quando entravi in un negozio di dischi. Gilmour, scherzando, qualche anno fa ci disse che la gente oggi conosce più la copertina che i brani di Atom Heart Mother!». Non c'è dubbio che la copertina più celebre, tra quelle realizzate per i Pink Floyd dallo Studio Hipgnosis, sia quella iconica di The Dark Side of The Moon, l'album perfetto del 1973, che ancora oggi vende 7.000 vinili a settimana ed è nella classifica Billboard degli album più venduti da trent'anni consecutivi. «Eravamo agli Abbey Road Studios con i Pink Floyd per discutere sulla copertina del nuovo album. Loro ci dissero "basta con le vostre strane idee", così tornammo a casa un po' depressi. Storm mi suggerì, allora, di fare una cosa semplice, tipo quella di Ummagumma. L'idea mi venne mentre stavo sfogliando un libro di fisica sulla riflessione della luce del prisma, così l'ho proposta e loro mi hanno detto "ok, la copertina è questa!". Ho mostrato tutte le alternative cromatiche, ma loro hanno voluto la prima, la più semplice, quella su campo nero. Non avrei mai pensato che un'immagine così semplice sarebbe diventata iconica, con oltre 50 milioni di copie vendute, per cui grazie ai Pink Floyd e grazie a me!».

Tra le chicche della mostra "Hipgnosis Studio: Pink Floyd and Beyond" al museo MArTa di Taranto spiccano proprio i bozzetti della copertina di The Dark Side of the Moon realizzati con tecnica mista pittura ad olio, acqua e pasta di tre colori, la foto inedita della copertina della riedizione di Animals che uscirà in occasione dei suoi 45 anni, scattata alla Battersea Power Station di Londra nel 2018, e una foto del 1980, scoperta solo qualche mese fa negli archivi, che ritraeva insieme, in un momento spensierato, tutti e tre i fondatori dell' Hipgnosis, Thorgerson, Powell e Christopherson. S

ul motivo del successo della copertina di The Dark Side of The Moon, Powell non ha dubbi: «Ha avuto successo perché rappresentava la sintesi perfetta di quello che erano allora i Pink Floyd dal vivo. Suonavano praticamente al buio, erano tutti vestiti di nero e quasi nascosti rispetto alla grandezza del palco, mentre venivano illuminati da uno straordinario light show, che Waters chiamava teatro elettrico: nessuna band aveva mai avuto luci così spettacolari». Fu decisamente più complessa la copertina di un altro capolavoro della band, Wish you were here del 1975. L'iconica cover fu ispirata dall'idea che le persone tendono a nascondere i propri reali sentimenti, per paura di rimanere "scottati", concretizzandosi nell'immagine di due uomini d'affari che si stringono la mano mentre uno di loro prende fuoco. «Dopo il clamoroso successo di The Dark Side of the Moon, i Pink Floyd erano diventati troppo grandi, troppo importanti, con concerti giganteschi negli stadi», ricorda Powell. «Non ne potevano più di questa fama eccessiva, avevano come la sensazione di essere stati bruciati e consumati dall'industria discografica. Allora non c'era Photoshop, così lo scatto con lo stuntman che prendeva fuoco lo abbiamo dovuto ripetere per 15 volte, con gli addetti della sicurezza che erano pronti, ogni volta, con l'estintore». Riflettendo sull'importanza che allora avevano le copertine degli album, Powell ha concluso: «All'inizio degli anni Settanta non c'erano molte riviste musicali ed erano poche le televisioni che si occupavano di musica, così le copertine erano la porta d'ingresso privilegiata per capire che musica suonasse una band. Quando entravi per la prima volta nella casa di una persona, gli album che aveva esposti in camera erano una sorta di carta d'identità per capire se con lui ti saresti trovato d'accordo o meno».

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Gabriele Antonucci