L’eruzione ha sconvolto l’arcipelago polinesiano che ora prova a riprendersi. Ma la vera scommessa è di non perdere la sua autentica natura, riflette una firma di Panorama che lo ha conosciuto bene.
Si atterra dopo tre ore di volo da Auckland, in Nuova Zelanda, sul turboelica che non si stacca mai più di 500 piedi dall’oceano, all’aeroporto internazionale Fua’Amotu, una sorta di resort con minima torre di controllo. È la porta del paradiso su cui è scritto: «Lasciate ogni affanno o voi ch’entrate». Se l’ossessione della modernità è il tempo, esiste un luogo dove a dominare è lo spazio senza confini: sono le isole Tonga. Qui il tempo non scorre, semplicemente accade.
Si è manifestato all’improvviso il 15 gennaio quando l’Hunga Tonga-Hunga Ha’apai si è destato dal profondo dell’oceano: una potenza, hanno stimato quelli della Nasa, 500 volte superiore all’atomica di Hiroshima; un’eruzione violentissima e a seguire uno tsunami che ha mostrato la finitezza del mondo. Le onde sono arrivate fino in Perù a 6 mila miglia di distanza provocando un disastro per lo sversamento di petrolio. Le cronache hanno raccontato che l’80 per cento dei tongani sono rimasti colpiti da questa furia sentenziando: a Tonga il tempo si è fermato.
È l’esatto contrario, a Tonga – che sono poi 173 isole sparse come smeraldi sul lapislazzulo fuso del Pacifico – il tempo si è manifestato. Ed è stato il destarsi del tempo a sconvolgere Tonga, ricoperta d’un tappeto grigio che occulta atolli di sabbie rosa e cocchi che penzolano ad accarezzare le onde, il luogo del pianeta dove il giorno finisce e comincia nello stesso momento. Sarà per questo che i tongani – i vichinghi del Sud – un popolo di uomini-cetaceo capaci di dominare l’oceano con gli opposti di coraggio e timore, di fede e animismo, di tecnica e rudimento, non sono mai stati sottomessi; hanno colonizzato tutto il Pacifico meridionale fino a deporre, ormai forse sazi e certo stanchi, oltre due secoli fa ogni arma. Respinsero gli olandesi, si accordarono con Thomas Cook: voi inglesi fate, ma lasciateci in pace. Sono rimasti nel Commonwealth e ancora c’è, all’angolo sud del palazzo reale a Nuku’Alofa – la capitale di questo regno mai tramontato – la casa che qui chiamano il Newcaso (da Newcastle) del governatore britannico. Ma sono impermeabili a ogni lusinga.
Dagli inglesi hanno assunto la guida a sinistra e i limiti di velocità a 40 miglia, ma non il tè che qui bevono, una broda scura, la kava, un fermentato di erbe che da anni correggono con tanto, troppo alcol: l’unica vera piaga di questo popolo, che è anch’esso un vulcano dormiente. «Eruttano» giocando a rugby, sono i mercenari della palla ovale e hanno colonizzato qualsiasi nazione dove si disputa tra i pali lunghi. Non sono orgogliosi come i Mahori, la loro haka piuttosto che un grido di guerra è un avvertimento agli avversari, sono intimamente polinesiani e perciò hanno confidenza con l’infinito. Ma hanno fierezza e forza e la manifestano conservando i loro riti. Un popolo unico come le loro «terremare».
Lasciata Fua Amotu, si prende un taxi che con 40 panga (più o meno un panga sono 50 centesimi, ma è una moneta inesistente: nel mondo si può cambiare solo in Nuova Zelanda e Australia) copre in un’ora il tragitto fino al porto di Nuku ‘Alofa. È da lì che comincia il paradiso. Sul lungomare transitano auto giapponesi. Negli anni Sessanta il Sol Levante che qui compra le alghe indispensabili per il sushi, voleva vendere ai tongani le quattro ruote, il Re obiettò: a che ci servono le auto? Noi abbiamo il mare, non le strade. E il Giappone costruì le corsie di Tonga per vendere le macchine (usate).
A Tonga la vita va così: è un baratto, o meglio, un incontro di opportunità. I soldi, peraltro, non sono la prima preoccupazione e da solo una ventina d’anni i tongani hanno iniziato a guardare oltre l’orizzonte. Che non passa neppure attraverso internet: funziona poco e male e a loro non importa, preferiscono le videocassette. Ai tongani di restare isolati non dispiace affatto. Sono rimasti ancorati a quando il Re era tra i più potenti del Pacifico e la casta dei guerrieri era quella che comandava. Per la prima volta, dieci anni fa, quasi in contemporanea con la salita al trono di Tupou IV, fratello del precedente monarca e l’ultimo a esercitare un potere quasi assoluto dacché il Parlamento era dominato dai nobili, un plebeo è diventato capo del governo: Siaosi Sovaleni. Il cambiamento è frutto di un’incomprensione: i tongani non capivano la lingua del Re. La corte che risiede nel palazzo reale (costruito in legno in Nuova Zelanda, poi portato in nave a metà Ottocento e rimontato nell’immenso e meraviglioso parco a sud della capitale) parla una lingua che non è quella del popolo. Sembra d’esser tornati a Versailles quando Luigi XIV inventò il dialetto di corte per non confondersi col resto della Francia.
I tongani invece parlano la lingua dell’oceano, qualcuno anche l’«anglano» che unisce inglese e tongano. In questo lessico c’è un verbo che manca: lavorare. Fanno, coltivano, pescano, ma non lavorano, non come obbligo. Vivono in larga misura del denaro che spediscono a casa gli emigrati. In tutte le isole abitano non più di 110 mila persone, quando tra Australia, Nuova Zelanda e in minima frazione Inghilterra e Canada ci sono altri 250 mila tongani.
Di mestiere giocano appunto a rugby o fanno gli artigiani, mai un mestiere che conosca un orario. Vivono in enormi capanne dove abitano famiglie-villaggio in promiscuità e il Re per ogni nuovo nato regala un maialino, il piatto nazionale. Lo cuociono sotto terra come in Sardegna. Profumano di vaniglia i loro campi dove crescono enormi zucche, il prodotto più esportato insieme con le alghe. Il resto è trascorrere la vita. A Nuku ‘Alofa si radunano sul lungomare, il boulevard delle ambasciate che sono costruzioni in legno e lamiera. Lì ci sono i ristoranti, un paio anche di italiani arrivati in cerca di business turistico salvo accorgersi che a Tonga non viene quasi nessuno. E i tongani ne sono felici. Non sono né le Fiji né le Samoa, eppure Tonga è l’incanto che si culla sul filo dell’oceano. Per saperlo bisogna fare rotta sull’arcipelago del nord a Vava’u (lì c’è a Neiafu, la seconda città del Paese, un altro aeroporto «internazionale») dove si nuota con le balene. Si manifestano all’improvviso, dal blu profondo, come se il mare prendesse forma ciclopica ma sapesse danzare con la lievità di una farfalla.
A Vava’u tutto è possibile; come assistere all’elezione di miss trans Tonga: 130 chili per un metro e 90 e labbra pneumatiche vermiglie, un profilo tra Paul Gauguin e Botero. A Sud c’è l’arcipelago Ha’apai dove dormono i vulcani. Qui ci fu l’ammutinamento del Bounty, qui sbarcò la prima volta Thomas Cook, qui Tonga torna a essere la terra dei vichinghi del Pacifico perché si vanno a cercare le radici tra le tombe monumentali dei Re. Qui le donne intrecciano ancora la tapa, la stuoia che è indumento bisex, qui con le foglie di pandano si confeziona qualunque cosa.
Si torna in traghetto senza orari come i voli, per partire si aspetta l’occasione buona, fino a Nuku’Alofa che è deserta. È domenica e la domenica Tonga è sospesa: tutti in chiesa. Vestiti come in una festa con le ragazze che caracollano su tacchi altissimi in abiti che paiono quadri, senza scoprire un centimetro di pelle. Perché a Tonga non ci si bacia in pubblico e le feste non hanno nulla di eccentrico: solo musica, canto, ballo rituale e alcol. Per poi assopirsi mentre una Rolls Royce anni Trenta scivola nella notte. È il Re che fa la ronda sulle «terremare» colpite ma non offese dalla natura.
Perché a Tonga esiste la presunzione di bontà, mentre il tempo si ferma davanti a Ha’amonga a’ Maui. È un arco ciclopico costruito 6 mila anni fa. È l’ingresso alle «isole degli amici» (l’altro nome di Tonga) o forse è il confine del tempo.