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Leone XIV, il Papa è tornato

Leone XIV, il Papa è tornato

È un pontefice, Robert Francis Prevost, che con l’esperienza pastorale e la preparazione teologica deve affrontare (e ricucire) le divisioni aperte da Jorge Bergoglio. E, con un nuovo Concilio, riportare il vaticano al centro dell’ordine mondiale.

Durante una partita di «marafone», è il tresette con la briscola, si gioca in Romagna, a un prestigiosissimo prelato fu chiesto un commento sul nascente Partito democratico. Rispose: «Volete sapere perché il comunismo è morto e noi siamo ancora in piedi da duemila anni? Entrambi facciamo nomine per cooptazione, ma i comunisti non hanno avuto la pazienza di trovare l’ultimo cretino e il giro s’è fermato».

I cardinali hanno impiegato 17 giorni ad archiviare Jorge Mario Bergoglio, a far tornare la Chiesa nell’alveo della tradizione e a stupire di nuovo il mondo nominando per la prima volta Papa uno statunitense. La Chiesa, dopo il pontificato di Francesco, è in stato confusionale sotto il profilo dottrinale, economico, di governo interno che si è acuito dopo la scomparsa di Benedetto XVI a fine 2022. Quasi pecorella smarrita si affida al pastore dei pastori: Robert Francis Prevost era fino alle 18 e 07 dell’8 maggio prefetto del Dicastero per i vescovi, colui il quale predisponeva la cooptazione dei porporati. Per dirla in termini calcistici, una squadra in crisi si è affidata al selezionatore creando quest’uomo che è cardinale da 14 mesi e ora 267esimo pontefice.

È totalmente emblematico che in conclave abbiano scelto un «Prevost»; il prevosto è nella tradizione un pastore d’anime che ha l’incombenza di amministrare le cose terrene. Perciò Leone XIV stupirà il mondo: sarà il Papa di un nuovo Concilio. Si è richiamato all’esperienza sinodale, ma lo stato confusionale sia della Chiesa come comunità sia del Vaticano come entità dipende dall’assemblearismo che Francesco è stato indotto a coltivare col sinodo permanente. Che per sua stessa natura distrugge il principio di autorità e Bergoglio ha reagito incrementando il proprio assolutismo. La produzione di «motu proprio» (sono come i decreti del presidente del Consiglio dei ministri dei tempi del Covid), che non ammettono repliche né consultazioni, è stata sotto Francesco senza pari per entità e incidenza. Non è un caso che chi ha tifato per la Chiesa «Ong» voluta o subìta da Francesco insista, come la Conferenza episcopale italiana guidata dallo sconfitto degli sconfitti Matteo Maria Zuppi, per il sinodo permanente. Non sarà così. Sotto la cupola di San Pietro è l’ora del grande «reset» che si tradurrà nella convocazione di un nuovo concilio: il Vaticano III.

Negli assetti della curia l’elezione del nuovo pontefice non è una partita pari: ci sono e ben visibili i perdenti. Prima di tutto gli italiani: dal partito di villa Nazareth, gli eredi del cardinale Achille Silvestrini, tifoso del compromesso storico convinto che Chiesa e comunismo – al contrario del nostro porporato appassionato di carte – possano andare d’accordo, alla comunità di Sant’Egidio. Andrea Riccardi è stato assai attivo durante i novendiali e le congregazioni cardinalizie, ma ha dovuto incassare una pesante sconfitta. Si misurerà dalla permanenza – e per quanto tempo – alla segreteria di Stato di Pietro Parolin la portata del rinnovamento che la Chiesa compie con l’elezione di Leone XIV a successore di Pietro.
Escono battuti i progressisti andati oltre il perimetro della dottrina ed in particolare il tedesco Reinhard Marx, Víctor Manuel Fernández, gli americani Blase Cupich e Robert Walter McElroy. Non è la rivincita degli «indietristi», come Francesco con afflato ecumenico aveva battezzato gli oppositori al motu proprio Traditionis custodes che proibisce la messa in latino, ma il recupero di un’identità teologica: quella delle Confessioni di Agostino d’Ippona.

I padri nel conclave hanno dosato in appena quattro votazioni la necessità di recuperare fedeli nelle parrocchie di un Occidente smarrito con le urgenze finanziare, hanno contemperato il bisogno di comunità, denunciando la condotta da Papa re di Francesco con l’esigenza di protagonismo della Chiesa e soprattutto guardando il mappamondo hanno capito che era venuto il tempo di fare al proprio interno un compromesso geopolitico: se si vuole la pace non si può pendere solo da una parte, se si vuole affermare il primato di Cristo non si può stare con chi lo nega, se si vuole essere comunità si ha bisogno di un abbraccio ed ecco quell’Ave Maria, inusitato, che Robert Francis Prevost ha pronunciato giovedì 8 maggio dalla Loggia delle benedizioni. I cardinali sanno bene che sarà un processo lungo: ed ecco un’altra smentita, si può nominare un Papa «giovane».

Prevost ha 69 anni e un lungo percorso da poter compiere. Accadde anche con Karol Woytyla: il mondo era a una curva della storia e loro scelsero un pontefice energico. Papa Leone XIV, e il nome dice tutto, si è presentato al mondo con il discorso d’incoronazione più lungo dell’era moderna: ha pronunciato otto volte la parola pace, ha rivelato una continuità con Francesco smentita però dai gesti.

I segni nella Chiesa cattolica contano. Prevost ha indossato la mozzetta – è la mantellina di raso rosso prerogativa del pontefice – riannodando il filo della tradizione con Benedetto XVI, lo scapolare ricamato e la croce d’oro quasi a dire: il Papa è tornato, «the Pope is back!». Ma c’è un contenuto ancora più alto e simbolico: Prevost è un agostiniano, anzi è il primo papa che viene da quell’ordine, che è quanto di più lontano si possa immaginare dai gesuiti a cui aveva giurato obbedienza Jorge Mario Bergoglio. Gli agostiniani, che sono uno degli ordini più antichi, si rifanno a Sant’Agostino d’Ippona prima grande peccatore poi immenso dottore della Chiesa e con l’Ordo monasterii dopo il concilio laterano del 1215 si costituiscono in comunità da eremiti predicatori e hanno nell’opera delle Confessioni il loro faro teologico.

Se si confrontano agostiniani e gesuiti se ne ricava una distanza abissale tra la chiesa orante, predicante e la chiesa militante. C’è un particolare che è sfuggito a molti. Le prime a fare festa sono state le suore agostiniane di clausura di Santa Rita Da Cascia che è la protettrice delle cause perse, ma anche la coltivatrice della vite secca che rinasce e si fa vita eterna. È ciò che la Chiesa chiede a Prevost che ha scelto di chiamarsi Leone XIV. Invocando tre predecessori: Leone Magno, l’uomo che impose il primato di Roma, che si batté contro le eresie con il Concilio (ecco che torna!) di Calcedonia, affermando che Cristo è vero Dio e vero uomo al contempo e pose il dogma dell’infallibilità del vescovo di Roma; Leone XIII che è il Papa della Rerum Novarum, l’enciclica della dottrina sociale della Chiesa. Solo a questa eredità guardano i bergogliani, ma Leone XIII fu anche il Papa dei nuovi esorcismi, della lotta al maligno nel solco più profondo della tradizione. E c’è un altro Leone, di cui non si è forse volutamente parlare: il XII. Il Papa della Genga esattamente due secoli fa – aprile 1825 – affidò al Giubileo la rinascita delle finanze vaticane e la riaffermazione della centralità della Chiesa dopo il ciclone napoleonico. Molto si è detto della soddisfazione di Donald Trump per l’elezione del Papa americano e nel giorno dei funerali di Francesco si ricorda una donazione di 14 milioni per tirare – come ha scritto il quotidiano QN spiazzando tutti – la volata proprio a Prevost. I bergogliani si ostinano a citare uno screzio di Leone XIV con J.D.Vance, il vicepresidente Usa cattolicissimo, ma la verità è che la chiesa americana è sempre più protagonista. Ha i dollari che servono oggi come l’aria a un Vaticano lasciato da Bergoglio nei debiti e nel caos amministrativo, ha un incremento costante di fedeli.

È sì spaccata tra Raymond Burke, uno dei cardinali dei dubia contro Francesco, e Blase Cupich, antitrumpiano e iperprogressita, ma con l’ascesa di Leone XIV ritrova unità e slancio. Semmai si deve guardare a cosa la nomina di questo agostiniano missionario in America latina che ha retto una piccola diocesi in Perù a Chiclayo dove già lo venerano come un santo, che parla quattro lingue ed è un cultore del latino, partito da Chicago per farsi monaco e sacerdote tra gli agostiniani a Philadelphia, sposta negli equilibri geopolitici. Di certo raffredda gli entusiasmi per la Cina. Piero Parolin e Luis Antonio Tagle in conclave hanno pagato il loro flirt con il regime comunista. Ma segna anche una discontinuità con l’Islam.

Non è trumpiano, ma può venire utile a Trump – perché è un Papa «diplomatico»: gli agostiniani lo sono per vocazione – a cui la Chiesa s’affida per essere protagonista di un nuovo ordine mondiale che non è più quello globale a cui si era affacciato Francesco. Per questo hanno scelto un pontefice pastore; per tornare dal mondialismo all’universalismo che risale al concilio di Leone Magno del 451! Ma anche in Medioriente l’invocazione della Pace di Prevost annuncia un’abiura di quella terribile frase di Francesco: «Bisogna indagare se a Gaza non sia in atto un genocidio» che ha compromesso il dialogo con gli ebrei. Sarà un attore del dialogo senza interlocutori privilegiati. La scelta del successore di Parolin al vertice della diplomazia vaticana dirà molto su questo.

Suggerisce Vittorio Robiati Bendaud, studioso dei rapporti tra Roma e Gerusalemme: «La Regione Lombardia inviti Leone XIV a Milano dove Agostino fu battezzato da Ambrogio e a Pavia dove c’è la tomba di Agostino. Nell’anno giubilare che segna i 1700 anni esatti dal Concilio di Nicea quando i padri della Chiesa purtroppo obbedendo a Costantino che voleva cristianizzare, conquistandola, Gerusalemme fanno nascere l’antisemitismo sarebbe magnifico che sulla tomba di Agostino Leone XIV riaprisse il dialogo tra cattolici ed ebrei così come Milano fu protagonista di quella stagione feconda nel rapporto tra il rabbino Giuseppe Laras e il cardinal Carlo Maria Martini».
Morto un Papa, ne hanno fatto decisamente un altro!

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