A causa del coronavirus la Silicon Valley oggi ricorda un deserto. I lavoratori dei colossi della rete sono in smart working, le case a San Francisco si svuotano, gli affitti crollano. Ma non durerà, è troppo il potere concentrato nel distretto principe dell’innovazione. Lo sostiene Anna Wiener, l’autrice americana che con il libro «La valle oscura» ne ha svelato i retroscena più imbarazzanti.
Rispetto allo scorso anno, i prezzi degli affitti a San Francisco sono scesi fino a un terzo: è stato il crollo più vertiginoso registrato negli Stati Uniti durante la pandemia. Il numero degli appartamenti senza inquilini è raddoppiato negli ultimi dodici mesi: esserci o non esserci non è più un dilemma, con i giganti tecnologici in smart working, i campus futuristici progettati dalle archistar semideserti, l’autostrada che dalla metropoli californiana conduce in Silicon Valley (e viceversa) quasi abbandonata, spoglia dei suoi proverbiali, snervanti ingorghi chilometrici. Il principale feudo del potere digitale globale ha perso i suoi laboriosi sudditi. Li ha delocalizzati online. La valle oscura, per citare il titolo del libro della giornalista Anna Wiener diventato un caso editoriale internazionale, sembra piuttosto la valle vuota.
Wiener, che oggi collabora con il magazine The New Yorker, per vari anni ha lavorato per diverse società hi-tech. Nel suo memoir pubblicato in Italia da Adelphi ne racconta, da dentro, la cultura maschilista, le velleità totalizzanti del tempo e del pensiero degli impiegati, la scarsa propensione alla tutela dei dati degli utenti, più merce che clienti, più sequenze di carte di credito che individui. Nulla di troppo nuovo, però affrontato con l’intreccio di un romanzo e la profondità, empatica, di una biografia.
Panorama ha incontrato l’autrice collegata in videochiamata dalla sua casa di San Francisco, per provare ad andare oltre le pagine, immaginare cosa sarà della Silicon Valley dopo il coronavirus. Se della valle oscura resterà giusto l’ombra. «Più che di un’industria» chiarisce subito Wiener «parliamo di un enorme club, in cui il network, la capacità di fare rete è dirimente. Certe relazioni non si cementano su Zoom».
Perciò dopo il vaccino sarà tutto come prima?
Le compagnie del tech hanno continuato a rastrellare soldi nel corso di questa crisi, la loro salute e il loro potere sono stati rafforzati durante la pandemia. La Valley rimarrà una regione cruciale per loro. Così come la propensione a massimizzare l’output dalla forza lavoro.
Lo smart working verrà messo al bando?
Magari si andrà in ufficio due o tre volte la settimana, il resto sarà da remoto. Di certo, bisognerà capire quanto pagare chi non rientrerà, chi si è trasferito altrove, come rimodulare i salari che sono proporzionati agli alti costi della Baia. Lo trovo un punto interessante, perché significa assegnare un prezzo non al valore del singolo talento o al prestigio di una multinazionale, ma alla qualità della vita che essa consente di ottenere.
Non è già uno degli elementi fondativi della Silicon Valley?
È oltre. È una dinamica relazionale. Esistenziale. Gli impiegati si appoggiano al datore del lavoro per il cibo, la lavanderia, per svariati servizi tipici della sfera privata. Il motivo, di solito, è perché passano così tanto tempo al computer da non riuscire a occuparsene. Alle aziende fa gioco sperimentare metodi originali per tenere le persone ancorate alla scrivania. Probabilmente assisteremo a tentativi imbarazzanti e divertenti per riprodurre la stessa cultura da remoto tramite benefit assortiti, però il mio pronostico è che alla fine tutto si risolverà in una questione di soldi.
Sta dicendo che nei meccanismi funzionali del pensatoio della tecnologia passato e futuro coincideranno?
Tendiamo a considerare queste compagnie e questa economia come inevitabili. Personalmente, non penso lo siano. Esiste sempre l’opportunità di essere più immaginifici, più etici, migliori. La Silicon Valley è puro capitalismo portato all’esagerazione, alla sua forma di sfruttamento più esasperato. Possiamo essere un filo ottimisti nel pensare che le organizzazioni dei lavoratori saranno efficaci, che il potere verrà in parte ridistribuito, ma non credo ci saranno interventi regolatori adeguati nella prossima decade. E, di sicuro, chi guida questi colossi non troverà incentivi a smantellare lo status quo.
Eppure, la cultura della diversità, del cambiamento, echeggia puntuale nei discorsi dei grandi amministratori delegati.
Sono temi che importano a tanti loro impiegati, ci sono varie figure professionali che si sforzano di promuovere l’inclusione, mentre altre vengono assunte con gli incarichi e i titoli giusti. Ma mi domando se queste persone abbiano una vera influenza, se detengano un potere reale. Se andassero a inficiare la capacità di generare profitto di un’impresa, ciò che decidono verrebbe applicato lo stesso? Alla fine, quello che conta è il modello di business. Le aziende sono interessate alla diversità nella misura in cui è loro d’aiuto. Sarei molto sorpresa se le cose cambiassero sul serio nei prossimi 20 anni.
Un orizzonte lunghissimo. È così pessimista?
Vada a leggere della Silicon Valley negli Anni Settanta, Ottanta, Novanta, questi problemi non sono nuovi, sono sul tavolo da mezzo secolo. Il razzismo, il sessismo, le discriminazioni basate sull’età sono inestricabilmente collegate al capitalismo. Finché non vedremo una modifica sostanziale nella sua struttura, il resto rimarrà immutato.
Uno dei passaggi terrorizzanti del suo libro riguarda la «God mode». Chi lavora in una società tecnologica gioca a fare Dio, riesce a vedere tutto quello che sta facendo un singolo utente, fino a conoscerne i dettagli intimi. La privacy è, di fatto, azzerata. Non è ancora più preoccupante del dibattito sulle derive del capitalismo?
Chiunque usi un servizio di dating suppongo arrivi a immaginare che gli addetti di quella app possano avere accesso ai suoi messaggi, alle sue foto, alle sue preferenze. La maggior parte delle persone non sa invece che esistono molteplici strumenti terzi che raccolgono quegli stessi dati, li conservano, rendono complesso ai legittimi proprietari rientrarne in possesso o cancellarli per davvero. È su quelle informazioni, sulla loro vendita, sulla loro analisi, che si basa un’intera economia.
La stessa che induce bisogni attraverso il continuo riverbero delle nostre ricerche e attività su internet. Pensa che, tramite la pubblicità e le raccomandazioni personalizzate, la Silicon Valley stia smantellando la nostra capacità di giudizio, depotenziando la nostra curiosità?
Ci ho ragionato a lungo e ammetto di non essere in grado di determinare quanto i miei interessi siano plasmati fino in fondo dagli algoritmi. Molte delle cose da cui rimango affascinata non arrivano da Instagram, da Twitter o da Facebook. Come non scelgo un libro sulla base delle valutazioni su Amazon. So bene che quei voti possono includere una profonda analisi letteraria e, allo stesso tempo, la velocità dei tempi di consegna o se il pacchetto era fradicio perché quel giorno stava piovendo. Penso che siamo ancora capaci di muoverci in questo mondo in maniera indipendente. Sebbene, è vero, si finisca per inciampare nel circolo vizioso dei continui feedback che si ricevono. È una questione innanzitutto estetica.
Si spieghi meglio.
Certe piattaforme, per esempio quelle di streaming musicale, non sono spazi immaginifici: sono molto lineari nel loro design. Sono prive di attrito, agili ed efficienti. In parte è un peccato, perché fanno perdere qualcosa del potenziale di internet, che è un medium creativo. Questi prodotti restano incantatori, si pongono dalla prospettiva giusta: fare scoprire cose che potrebbero piacere, spesso riuscendoci. Anche quando dico di essere stanca di me stessa, di non desiderare suggerimenti che riflettano il mio passato, di volere essere esposta ai gusti di qualcun altro, ci cado comunque.
Perché accade?
Forse è pigrizia, forse è fiducia che le aziende tecnologiche sappiano sempre proporci la migliore versione possibile di un’esperienza. Queste compagnie sono bravissime a presentarsi come le più abili, le più innovative. Non saprei come possiamo aggirare tutto questo, ma direi che dobbiamo allenarci a farlo. Dobbiamo tentare di deprogrammarci.